I FOCUS DI PISA N. 68 – 69 – 70

a cura di Marco Bardelli

I Paesi in cui è migliorata l’equità scolastica nello scorso decennio

Cosa dice il Focus n.68

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·Tra il 2006 e il 2015 l’equità in educazione, misurata attraverso il grado di influenza  dello status socio-economico degli studenti sui loro risultati,  è migliorata in 11 Paesi partecipanti a PISA e mediamente nell’insieme dei Paesi OCSE.  

·Gli Stati Uniti sono il Paese dove, tra il 2006 e il 2015 è maggiormente diminuito l’impatto dello status socio-economico degli studenti sui loro risultati, e dove  è cresciuta di più la probabilità che gli studenti svantaggiati abbiano alti risultati.

·Nessun Paese è migliorato sia nei risultati in scienze sia in equità tra il 2006 e il 2015, ma i risultati medi rimangono stabili in 9 paesi dove lo status socio economico è diventato un predittore più debole dei risultati degli studenti.

Il livello di equità di un sistema educativo può cambiare nel corso di un decennio. Ma quanto?

PISA presenta evidenze di come alcuni sistemi scolastici possano divenire più equi in tempi relativamente brevi e contrastare così le  differenze nei risultati scolastici dovute alle disuguaglianze di status socio-economico delle famiglie.

Per esaminare l’equità dei sistemi scolastici PISA ha condotto un’analisi sul grado di predizione degli esiti delle prove in base allo status socio-economico degli studenti. Si è esaminata l’evoluzione di questo indicatore (denominato “gradiente socio-economico”)  tra il 2006 e il 2015, ossia tra le due sessioni di PISA in cui le scienze sono state l’oggetto principale delle analisi.

Dal 2006 al 2015 la variazione dei punteggi PISA in scienze, spiegata dalle differenze di status socio-economico, è passata complessivamente dal 14% al 13%. L’equità è migliorata quindi in modo molto modesto nella maggior parte dei Paesi partecipanti a PISA.

Vi sono però differenze fra i Paesi, in alcuni (come Bulgaria, Cile, Tailandia e Stati Uniti) il gradiente socio-economico si è ridotto del 6-7%, in altri del 2-6% (come Brasile, Danimarca, Germania, Islanda, Messico, Slovenia). Il progresso verso una maggiore equità in educazione è tanto più rilevante in quanto molti di questi Paesi hanno registrato nello stesso periodo un aumento nelle disuguaglianze economiche. E tra il 2006 e il 2015 quattro di questi Paesi: Bulgaria, Cile, Germania e USA sono passati da valori di equità al di sotto della media OCSE a valori in linea con la media OCSE.

La presenza di “studenti resilienti” favorisce l’equità

Le tendenze verso l’equità sono dovute anche alle performance degli studenti resilienti, di quelli studenti, cioè, che, pur avendo un basso status socio-economico, hanno risultati di alto livello nel confronto internazionale rispetto a studenti dello stesso livello socio-economico. Tra il 2006 e il 2015 la percentuale di questi studenti resilienti è aumentata del 12% negli USA e tra il 4 e 9 % in Germania, Danimarca, Slovenia e Bulgaria.

Una maggiore equità non è necessariamente a spese dei buoni risultati

I risultati di PISA indicano come alti risultati e maggiore equità non si escludano a vicenda e come questi due fattori insieme possano definire il successo educativo. Tra il 2006 e il 2015 l’influenza del gradiente socioeconomico si è ridotta in nove Paesi in cui è rimasta stabile la media dei punteggi dei risultati in scienze (Brasile, Bulgaria, Cile, Danimarca, Germania, Montenegro, Slovenia, Tailandia e Stati Uniti), per cui in questi Paesi  lo status socio-economico è diventato un predittore  dei risultati meno affidabile.

Per mantenere entrambi questi obiettivi (equità e alti risultati) le politiche educative devono individuare risorse mirate per scuole con alte concentrazioni di studenti svantaggiati socio-economicamente e con scarsi risultati per evitare che peggiorino.

Politiche sociali di più ampio respiro che assicurino sufficiente omogeneità tra le prime esperienze di vita di bambini svantaggiati e avvantaggiati possono favorire l’equità e alti risultati quando questi bambini entrano nel sistema formale di educazione.

Le politiche di aiuto agli studenti socio-economicamente svantaggiati a raggiungere alti risultati  scolastici devono andare di pari passo con quelle di supporto agli studenti scolasticamente più deboli.

COMMENTO

 In Italia

In Italia, dopo la sbornia autocelebrativa dei media e di parte del governo, in merito alla capacità del nostro sistema di istruzione di ridurre l’impatto dello status socio-economico sugli apprendimenti, subito ridimensionata da articoli di approfondimento più seri pubblicati sulla rivista “Il Mulino” e anche sul nostro sito ADI   da Tiziana Pedrizzi, PISA pubblica questo focus dove a chiare lettere si dichiara che in 10 anni non è stato possibile riscontrare significativi miglioramenti nell’equità dei sistemi scolastici partecipanti all’indagine internazionale. Alcuni Paesi come Bulgaria, Cile, Germania, Slovenia, Tailandia e USA,  hanno migliorato la loro equità più di altri, ma nel complesso in modo contenuto; l’Italia non è nemmeno menzionata. Le nostre variazioni, se si leggono i grafici presentati, non sono assolutamente significative.

Le due cose- migliori apprendimenti e migliore equità- non sono in opposizione ma neanche facilmente associabili. La scuola può affrontare solo alcune delle questioni sociali dei Paesi moderni e se ne è accorto anche PISA perché il Focus fa riferimento esplicito alla necessità di politiche sociali ed economiche di più ampio respiro per compensare gli svantaggi di carattere socio-economico che possono incidere sull’istruzione.

Per come si è trasformata la scuola in questi ultimi anni in Italia, è forse giunto il momento di cominciare a circoscrivere una domanda educativa più ragionevole per il sistema di istruzione e di rendere questo ad essa più funzionale. Certamente una scuola come “macchina burocratica” che abbandona a se stessi gli istituti in preda all’interpretazione delle norme e alla gestione del personale non avrà la forza né di formare studenti resilienti né di potenziare quelli più capaci.  Il pubblico e il privato dovranno perciò farsi carico attraverso altri strumenti di un reale riequilibrio sociale cosa che la scuola da sola, allo stremo delle forze, per lo meno in Italia, non è più, o non mai stata in grado, di ottenere. Un eccesso di fiducia nelle sole potenzialità salvifiche della scuola può contribuire indirettamente a una inerzia delle politiche sociali che solo se di ampio respiro possono invece contribuire al miglioramento dell’istruzione e dell’educazione dei giovani.

A quali occupazioni scientifiche  aspirano i quindicenni?

Cosa dice il Focus n.69

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·In media nei Paesi OCSE, quasi uno studente su quattro– maschio o femmina-pensa di intraprendere un’occupazione  che richieda un’ulteriore formazione scientifica oltre l’istruzione obbligatoria.

·I ragazzi che pensano di intraprendere carriere di ingegneri, scienziati o architetti sono il doppio delle ragazze, e il 4,8% dei ragazzi, ma soltanto lo 0,4% delle ragazze si aspetta di intraprendere carriere legate alla tecnologia e alla comunicazione informatica

·Il triplo delle ragazze rispetto ai ragazzi intendono intraprendere carriere come medici, veterinarie, infermiere o altri esperti della salute

 Rispetto al secolo scorso, il numero di donne occupato anche nei settori professionalmente più elevati delle professioni mediche è aumentato considerevolmente. Questo non è però il caso di tutte le professioni scientifiche, come ad esempio la fisica, in cui l’ultimo Nobel a una donna risale al 1963. Anche le nuove occupazioni nei settori delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sono dominate dagli uomini.

La segregazione occupazionale è una delle cause del persistente gap tra i generi. I Paesi che supportano allo stesso modo uomini e donne nella ricerca di occupazioni nei settori scientifici danno più garanzie, a beneficio di tutti, che i futuri talenti per l’innovazione non vadano persi. PISA 2015 ha chiesto ai quindicenni quale tipo di occupazione lavorativa si aspettano di avere a 30 anni. Le risposte sono state raggruppate in due categorie: occupazioni non scientifiche e occupazioni scientifiche, tra le quali figurano: ingegneria, occupazioni mediche, occupazioni legate all’ICT e ovviamente tutte le occupazioni collegate alle scienze matematiche, chimiche,  fisiche e naturali.

In media nei Paesi OCSE il 24% dei quindicenni ha dichiarato di voler seguire studi in cui sia presente un indirizzo scientifico.  Gli studenti sono così ripartiti: 8,6% tra scienze e ingegneria, 11,4% professioni sanitarie, 2,6% professioni nell’ ICT e 1,4% tecnici nei settori delle scienze applicate. I ragazzi (25%) e le ragazze (24%) sono ripartiti egualmente in questi settori, ma hanno idee diverse di cosa queste occupazioni significhino.

Le ragazze che si vedono proiettate verso occupazioni sanitarie sono il triplo dei ragazzi, soprattutto in particolari professioni come: dentista, farmacista, veterinario, fisioterapista, infermiere, dietista e ostetrica. I ragazzi invece si vedono maggiormente occupati nei settori delle scienze e dell’ingegneria. Le ragazze si vedono come architetti o designer ma pochissime come ingegneri o programmatori. Solo lo 0.4% delle ragazze contro il 4,8% dei ragazzi si vede occupato nel settore delle tecnologie informatiche e della comunicazione.

PISA rivela le attese dei quindicenni che possono cambiare nel tempo e con le esperienze, ma per ora questi risultati combaciano con i dati sulle iscrizioni universitarie. Nel 2013 il 78% delle donne rappresentava i nuovi iscritti negli studi terziari per le professioni sanitarie e sociali, e solo il 30% per gli studi terziari di carattere ingegneristico.

Queste differenze si accentuano in alcune nazioni come in Norvegia dove le quindicenni che aspirano a una professione sanitaria sono 7 volte i maschi (il 21% contro il 3%); in Finlandia i ragazzi che si vedono come futuri ingegneri o impiegati in occupazioni scientifiche sono il 6,1% contro l’1,4% delle ragazze, mentre le ragazze che aspirano a professioni sanitarie sono il triplo dei ragazzi (il 16% contro il 5%). In realtà queste diverse aspettative riflettono interessi diversi verso le scienze, l’ingegneria e le professioni in ambito sanitario che sono stati individuati nell’indagine PISA.

Anche le attese nelle occupazioni collegate a settori scientifici sono però diverse in ragazzi e ragazze che sono egualmente interessati alle scienze e che ottengono in quest’ambito alti punteggi nei test. Infatti in Germania, Svezia e Ungheria tra i migliori studenti in scienze è molto più probabile che siano i maschi a vedersi proiettati verso carriere scientifiche piuttosto che le femmine. Questo risultato richiama altri studi in cui molti studenti dichiarano di divertirsi con le scienze ma non le percepiscono come qualcosa di importante per loro.

Le influenze familiari e culturali rendono le donne inclini verso stereotipi che non ne facilitano l’avvicinamento verso le professioni scientifiche che sono viste non come l’esito di impegno prolungato, ma come il risultato di attitudini e caratteri spesso tipicamente maschili. Le scuole possono contrastare questi stereotipi dando migliori informazioni che siano realistiche, credibili, ed evitino il formarsi di aspettative irrealistiche in merito alle occupazioni scientifiche. Educatori e datori di lavoro che operano in settori tipicamente “maschili” o “femminili” possono aiutare a ridurre la presenza di stereotipi evidenziando ad esempio come le professioni legate alle scienze dell’informazione, tipicamente maschili, possono aiutare a risolvere problemi legati alla salute, di interesse più tipicamente femminile. Ciò può anche essere ottenuto con un più diretto contatto con le scuole e con gli studenti. Naturalmente gli insegnanti possono contribuire favorendo l’interesse di maschi e femmine nei diversi ambiti scientifici.

COMMENTO

Tra i vari compiti della scuola come può mancare ad esempio la promozione delle future occupazioni scientifiche, magari contribuendo al riequilibrio dei divari di genere nel settore? Nel futuro le professioni legate allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, alle nuove forme di trasmissione di energia, alle nanotecnologie e alla genetica, solo per fare qualche esempio, saranno sempre più richieste e per entrarvi sarà necessario un sempre più profondo e specifico bagaglio di conoscenze oltre che al bagaglio di competenze necessario a fronteggiare l’imprevedibilità il mondo della quarta rivoluzione industriale. Si stima che, almeno nel mondo più industrializzato, il 65% degli studenti di oggi sarà chiamato a fare lavori che ancora non esistono.
Quattro sono i pilastri per indirizzare gli studenti verso le professioni legate alle cosiddette STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica).
Gli studenti dovrebbero avere:

  1. una maggiore consapevolezza dei diversi tipi di occupazioni che sono presenti o possibili nelle aree scientifiche (non tutte da immaginarsi all’interno di laboratori pieni di provette o pc manipolati da scienziati rigorosamente in camice),
  2. una conoscenza della rilevanza reale che le occupazioni scientifiche hanno per la vita quotidiana di tutti,
  3. un impegno costante verso la riuscita in questi ambiti
  4. e un senso di autoefficacia nell’utilizzo delle idee e strumenti scientifici.

Per ottenere questo a scuola gli insegnanti dovrebbero coltivare approcci sia formali sia informali verso le scienze e le tecnologie (purtroppo l’ingessatura dell’organizzazione scolastica non aiuta in questo), raccontare la vita degli scienziati come di fatto è, cioè vita di persone assolutamente normali, e inoltre possedere conoscenze di carattere scientifico e umanistico in modo da collegare le materie di studio con ciò che viene attualmente fatto nelle professioni scientifiche (ovvero spiegare come vengono utilizzate le conoscenze scientifiche di base operativamente nelle professioni). Questo è un esempio di  programma ambizioso da intraprendere per la scuola su cui impegnare anche la formazione dei docenti e che a dire il vero in parte si comincia a intravedere in Italia anche con il progetto degli Atelier Creativi nel PNSD (Piano Nazionale Scuola Digitale). Nell’ approccio alle occupazioni scientifiche il divario di genere è stato più volte affrontato nei focus PISA 2012, dove la carenza di un senso di autoefficacia in matematica è stato sottolineato come uno dei fattori che fanno desistere le studentesse dal proseguire negli studi scientifici.

Il mantenimento degli stereotipi che vedono le professioni scientifiche più adatte ai maschi è sicuramente dovuto alle pressioni del contesto socio-familiare, ma anche all’alta percentuale di femminilizzazione della professione docente, le donne infatti sono presenti in gran numero anche come docenti di scienze e matematica, fa pensare come, anche se in modo non intenzionale, la scuola possa contribuire a disincentivare le carriere scientifiche delle sue studentesse. L’immagine della donna che si prende cura degli altri prima come figlia/sorella, poi come madre o baby sitter e infine come badante o nonna può direzionare la scelta verso professioni che pur legate all’ambito delle scienze mantengono questo aspetto di cura della relazione con gli altri.

Formazione e selezione  degli insegnanti nei paesi che hanno i migliori esiti in PISA

Cosa dice il Focus n.70

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·I Paesi con elevati risultati scolastici usano vari sistemi per selezionare i migliori candidati alla professione docente. In  Finlandia, Hong Kong ( Cina) , Macao ( Cina) e nel cinese Taipei gli studenti che desiderano iscriversi a corsi di formazione all’insegnamento devono superare un esame di ingresso molto selettivo. In Giappone  chi intraprende l’insegnamento deve superare un esame molto duro nella fase del reclutamento e in Singapore devono completare un periodo di prova . Queste richieste, comunque, si riscontrano anche in Paesi con bassi risultati scolastici, il che dimostra che una selezione precoce, anche se importante non è sufficiente ad assicurare una forza insegnante altamente qualificata.

·Tra I Paesi OCSE, la proporzione di docenti abilitati all’insegnamento ha un positivo, per quanto modesto, impatto sui risultati degli studenti nei test PISA.

·Nei Paesi che hanno avuto risultati sopra la media OCSE in scienze, almeno l’80% degli studenti si trovano in scuole che invitano specialisti  a condurre la formazione degli insegnanti  o ad organizzare workshop interni e dove gli insegnanti collaborano tra loro.

Non esiste un unico metodo per selezionare i migliori candidati alla professione docente.  La maggiore difficoltà sorge nel momento in cui si cerca di definire in cosa consista un bravo insegnante. Avere una solida conoscenza disciplinare, abilità nel gestire la classe, competenza nell’aiutare gli studenti nel loro apprendimento sono dei prerequisiti ovvi per la professione, ma possono non essere più sufficienti . In un mondo in espansione gli insegnanti sono chiamati a insegnare a gruppi di studenti molto diversi tra loro, ad adattarsi alle nuove tecnologie e ai cambiamenti nel curricolo, nonché a sintonizzarsi verso  valori, attitudini e abilità di cui i loro studenti avranno bisogno in futuro. Molti insegnanti acquisiscono queste competenze attraverso l’insegnamento. La maggior parte degli insegnanti si professionalizzano nel corso del loro lavoro partecipando ad attività organizzate di formazione professionale, in modo autonomo o attraverso reti di insegnanti. Come vengono però selezionati e quali attività di formazione vengono offerte nei paesi con i migliori sistemi scolastici?

I meccanismi di selezione possono produrre un pool di candidati più qualificati, ma questo non è un predittore sufficiente dei risultati scolastici

In alcuni Paesi esami competitivi per il reclutamento o per l’ingresso alla formazione iniziale possono creare le condizioni per formare un gruppo selezionato di candidati alla professione docente. In Paesi dove però c’è carenza di aspiranti docenti questi meccanismi di selezione possono scoraggiare potenziali candidati a questa professione. I dati PISA non rilevano una chiara associazione tra i meccanismi di reclutamento e formazione dei docenti e gli esiti di apprendimento degli studenti.  In alcuni Paesi con i migliori esiti PISA come: Finlandia, Hong-Kong, Macao (Cina), Taipei (Cina) sono presenti severi esami per l’ingresso alla formazione iniziale, ma esami altrettanto duri sono previsti in Paesi in cui gli studenti danno esiti di apprendimento inferiori. In Giappone un esame rigoroso è invece previsto successivamente,  per iniziare la professione di insegnante. A Singapore non ci sono esami iniziali selettivi, ma i candidati all’insegnamento devono superare un periodo di prova in cui sono valutate le loro competenze per la professione; inoltre i candidati ammessi alla formazione sono tra il 30% circa dei migliori studenti dell’ultimo anno delle scuole secondarie di II grado, e ricevono  anche buoni stipendi nel periodo di formazione.

Le varie certificazioni degli insegnanti sono associate in modo molto modesto ai risultati degli studenti nei test PISA di scienze

I requisiti di certificazione aggiungono un altro livello di selezione. Certificazioni, diplomi, titoli e altri tipi di attestati non garantiscono l’eccellenza nell’insegnamento, ma possono garantire che solo i più motivati progrediscano nella loro carriera professionale. In PISA 2015 i dirigenti scolastici hanno risposto a domande sui titoli dei docenti delle loro scuole. Tutti i Paesi che hanno ottenuto punteggi PISA in scienze oltre la media OCSE hanno una percentuale media (92%) di docenti con le certificazioni e i titoli completi per la professione, in confronto ad altri Paesi in cui questa percentuale scende in media al 76%. In alcuni Paesi del Sud Est Asiatico con gli esiti migliori in PISA si arriva al 95%. Queste percentuali vanno però interpretate con estrema attenzione dato che gli standard per accedere alla professione variano molto da Paese a Paese.

Il numero relativo di insegnanti che hanno i titoli adeguati, stabiliti da un’autorità legittimata a farlo, spesso non varia molto tra le scuole, soprattutto in sistemi scolastici in cui quasi tutti gli insegnanti devono possedere determinati titoli. Comunque nei Paesi OCSE, questa variazione è positivamente, anche se debolmente, associata agli esiti degli studenti.

Attività di sviluppo professionale  svolte nelle scuole possono essere efficaci, soprattutto se favoriscono la collaborazione fra gli insegnanti.

La necessità di far si che gli insegnanti restino al passo con le richieste della professione è motivo dell’obbligatorietà della formazione in servizio in molti Paesi. Nei Paesi con esiti PISA oltre la media in scienze, almeno l’80% degli studenti si trovano in scuole in cui vengono condotte attività di formazione degli insegnanti da parte di formatori specializzati, oppure in scuole dove vengono condotti laboratori di formazione o attività di apprendimento cooperativo tra i docenti. In questi Paesi le attività di formazione risultano in numero molto maggiore che negli altri. Si raggiunge il 95% di studenti che studiano in scuole di questo tipo in Australia, B-S-J-G (Cina), Nuova Zelanda, Singapore e Regno Unito.

I risultati di PISA entro i singoli Paesi nel 2015 mostrano però una debole correlazione tra formazione degli insegnanti ed esiti degli studenti. Solo la collaborazione professionale tra docenti nelle scuole è associata positivamente con gli esiti degli studenti in scienze, dopo il loro status socio-economico. Nelle scuole dove i dirigenti hanno dichiarato che gli insegnanti collaborano scambiandosi materiali e idee gli studenti hanno ottenuto in media 9 punti in più in scienze. Il vantaggio dell’apprendimento tra pari rispetto alla formazione attraverso un formatore esterno, può derivare dal fatto che feedback e idee provenienti da altri insegnanti, magari esperti, della stessa scuola, sono in relazione più diretta con la concrete e comuni sfide presenti quotidianamente nelle classi. La collaborazione può privilegiare tecniche sperimentate in quel particolare contesto scolastico. Infine PISA ha mostrato che gli insegnanti partecipino più facilmente alla formazione in servizio quando è organizzata direttamente dalla scuola.

COMMENTO

Il focus 70 sposta l’attenzione sulla formazione degli insegnanti. Non tutto ciò che deve apprendere un buon docente deve essere insegnato nelle università. Il professionista dell’insegnamento ha tutta una vita davanti durante la quale non può smettere di apprendere ( o non dovrebbe farlo) in forma individuale e collegiale. In Italia la formazione in servizio promossa dai  vari piani ministeriali o da organismi centralizzati è spesso stata poco efficace. La formazione dei docenti come collaborazione professionale tra pari sembra essere l’unico caso di formazione che veramente si possa mettere in relazione al miglioramento degli apprendimenti. Il Lesson Study giapponese è l’esempio più noto di formazione tra pari, ma ne esistono anche altri in Cina, e pure in Italia in passato abbiamo avuto esperienze mai sufficientemente valorizzate. Una formazione che nasce dall’esigenza di dare risposta ai problemi concreti di insegnamento/apprendimento che si verificano in aula, e di cui spesso neanche gli insegnanti riescono chiaramente a dare una formulazione esplicita, richiederebbe una lunga e costante pratica riflessiva con formatori esperti, che nemmeno le università riescono a mettere in campo. Si è parlato a lungo, a tale proposito, di ricerca azione che col tempo, pur essendo un metodo preciso di formazione e ricerca, è diventato il modo di nominare semplicemente l’indagine che si fa nelle scuole su qualche argomento senza preoccupazioni metodologiche. E i risultati infatti (non) si son visti. E’ ora di dire basta alla formazione calata dall’alto, svolta da enti e università che non sono in grado di fornirla, perché non organizzata sulle esigenze delle scuole. Ma è ora anche che le scuole, insegnanti e dirigenti si mettano in gioco anche a costo di perdere le sicurezze che hanno acquisito nel tempo, ma che non danno alcuna garanzia di esiti positivi per i loro studenti. Riprendere in mano la propria professione in funzione delle necessità degli studenti e non del corpo docente, rinvigorire l’associazionismo professionale, farsi agente propositivo per rinnovare la scuola dal basso sono tra le poche chance che questa professione può avere per rivalutare il proprio ruolo nella società.

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