RELAZIONE DI GIULIA BACCARIN
Un aneddoto per cominciare
Prima di cominciare vorrei raccontarvi un aneddoto su Henry Ford II, il pronipote di Henry Ford I, il fondatore della famosa casa automobilistica Ford, nonché inventore del metodo fordista. Henry Ford II passeggiava nella sua azienda insieme a Walter Philip Reuther, che era all’epoca il capo del potente sindacato automobilistico americano. A un certo punto Ford si gira scherzoso verso il sindacalista e gli dice: “Ehi, Walter come farai a far iscrivere questi robot al sindacato?” E Reuther di rimando: “Ehi, Henry sono curioso di vedere come farai tu a vendere le automobili a questi robot”.
Tutto questo, nonostante nel 1950 la fabbrica di Henry Ford II non fosse certo una fabbrica predittiva, ovvero una fabbrica dove persone, macchine e processi sono connessi in rete e dove i dati così raccolti vengono sistematicamente usati per predire i fenomeni del prossimo futuro al fine di offrire un vantaggio competitivo.
La potenza della connessione
Tanta strada è stata fatta e oggi cercherò con voi di vedere come funziona una fabbrica predittiva e cosa implica per il lavoro e l’istruzione.
Ma prima, voglio darvi un’idea di qual è oggi la potenza della connessione, quella che Pierre Levy definisce l’intelligenza collettiva, ovvero la nostra singola intelligenza connessa all’intelligenza delle macchine, degli animali, degli alberi e a tutti i dati che è possibile raccogliere.
Vi faccio una domanda: “ Quanti di voi nella giornata di ieri non sono riusciti a fare tutto quello che avevano in mente di fare? Alzate la mano”. Ecco, quando faccio questa domanda ai convegni più o meno tutti alzano la mano, come voi qui. Ogni mattina ci svegliamo, vorremmo fare un certo numero di cose e non ci riusciamo mai. La verità, però, è che c’è qualcosa a cui l’umanità tutta non rinuncia. Ed è l’interazione con le tecnologie digitali: solo nella giornata di ieri l’umanità ha utilizzato 200 milioni di ore per caricare e taggare foto su Facebook. Tanto per dare un’idea più concreta del monte di ore che questo rappresenta, sappiate che corrisponde a 10 volte il tempo servito per costruire il canale di Panama. E’ una potenza inaudita e noi siamo la prima generazione ad avere un’arma collettiva così potente. Immaginate che cosa sarebbe se insieme direzionassimo questa potenza collettiva verso un unico scopo.
Come funziona la fabbrica predittiva
Per tornare a come funziona la fabbrica predittiva, vi faccio un esempio che potrebbe appartenere alla vita di tutti noi.
Immaginiamo per un momento una fabbrica predittiva, che produca, ad esempio, scarpe. Chiamiamola Azienda ACME. Algoritmi di sentiment analysis e di data mining setacciano la rete per conto di ACME alla ricerca di potenziali clienti. Questi algoritmi sanno desumere qualsiasi cosa su di noi sulla base delle briciole digitali ossia delle informazioni che lasciamo in rete senza nemmeno accorgercene. Sono sufficienti 3 foto e 1 tag perché Facebook riconosca il nostro volto e segua i nostri successivi movimenti ovunque sul web.
Dunque per tornare ad ACME, immaginiamo che Maria Chiara debba andare a un matrimonio sabato prossimo. Lo sappiamo perché l’abbiamo seguita grazie ai suoi post o alle foto che i suoi amici hanno pubblicato.
Possiamo prevedere anche che sarà portata ad acquistare un paio di scarpe con tacco diciamo di 8 centimetri e di colore rosso.
Lo sappiamo perché algoritmi di sentiment analysis hanno cercato Maria Chiara, hanno seguito Maria Chiara nel web e taggato tutte le sue preferenze grazie alle briciole digitali che lei lascia nel web. Quindi sappiamo, ancora prima che lo sappia lei, che molto probabilmente Maria Chiara vorrebbe indossare un paio di scarpe rosse. La seguiamo nel web e riusciamo a convogliare il suo desiderio verso un ordine di acquisto rispondendo alle sue titubanze grazie a dei bot, algoritmi che solerti e gentili le rispondono via via in automatico. Niente paura, perché sono molto più comode di quello che sembra, in quanto esistono anche degli algoritmi che riescono a prevedere esattamente quale forma avrà il piede della persona che comprerà nel suo e-commerce, quindi quelle scarpe rosse non le faranno male nemmeno dopo qualche ora di ballo. Infatti una volta che lei ha fatto l’ordine, questo viene trasformato da ordine di acquisto in ordine di lavoro e si aprono le porte del mio mondo, del mondo nel quale lavoro: la fabbrica predittiva. Nella fabbrica predittiva il taglio della pelle, la salpa che modella la scarpa, la cucitura, il tutto viene eseguito in maniera automatizzata da robot, i nostri Pepper, che si attivano automaticamente su logica pull.
Se vi state chiedendo per esempio chi posiziona la pelle rossa per il taglio, fidatevi che per qualsiasi dei fratelli di Pepper o per qualsiasi altro drone attualmente in commercio, questa operazione è molto semplice e già viene svolta abbastanza abitualmente.
La cosa interessante è che lo stato di salute di Pepper nella fabbrica predittiva è monitorato da sensori di condition monitoring, questi sensori attraverso le cosiddette analitiche predittive sono in grado di prevedere se si romperà qualcosa e quando, con un anticipo fino a sei mesi. Quindi oggi 2 marzo siamo in grado di dire che cosa gli succederà, con una precisione del 98%, fino al 2 di novembre. La cosa ancor più interessante è che anche i suoi consumi energetici sono tenuti ovviamente sotto controllo, ma non tanto per capire quanto spende in termini di bilancio energetico quanto piuttosto per intercettare se ha dei momenti per così dire di pigrizia o dei momenti in cui non va veloce quanto dovrebbe. La cosa che ci ha ispirato quando abbiamo costruito gli algoritmi per monitorare lo stato di salute di Pepper è il fatto che, così come il sangue fluisce nel nostro corpo e fornisce una miriade di informazioni sul nostro stato di salute, anche in Pepper e in tutta la fabbrica predittiva l’energia fluisce all’interno del suo corpo e all’interno delle nostre fabbriche, case, ospedali e scuole e riporta informazioni circa lo stato manutentivo e circa lo stato di efficienza di questi robot.
Quale posto per gli esseri umani nella fabbrica predittiva?
Vi starete domandando adesso di quale tipo di futuro io stia parlando, se è qualcosa di reale o se è qualcosa di futuribile. La realtà è che in MIPU, l’azienda che ho co-fondato, ma anche in molte altre aziende del mondo, queste tecnologie sono già realtà e in Italia le trovate per esempio in tante fabbriche, nei supermercati, in alcuni ospedali e anche in due università estere.
Credo che ora possa sorgere spontanea una domanda: “ Posto che abbiamo convogliato l’acquisto e che ci sono i robot che fanno più o meno tutto al posto nostro, che cosa faranno gli esseri umani nella fabbrica predittiva?”
Mentre cercavo una risposta a questa domanda, Teodora, la mia gatta, mi ha voluto dare una sua risposta, un suo contributo………. Guardatela.
Ma davvero il nostro ruolo nella società di domani sarà solo quello di riposarci stravaccati al sole? Per quanto possa sembrare auspicabile, vi assicuro che più di tanto non lo è, perché, come diceva Voltaire, il lavoro non solo libera dal bisogno ma anche dal vizio e dalla noia.
Per spiegare che cosa faranno gli esseri umani nella fabbrica di domani vorrei riandare con la memoria al 1986, quando lo Space Shuttle Challenger si schiantò meno di 2 minuti dopo il lancio.
Risultò che il motivo dell’esplosione fu una valvolina O-erre nel razzo ausiliario, che si era congelata la notte prima sul trampolino di lancio. Così una singola valvolina da due soldi, nello Space Shuttle Challenger da miliardi di dollari, aveva portato tutta l’impresa a catastrofe, con la terribile morte di sette astronauti.
Perché ho preso un esempio tanto tragico? No, non allarmatevi. In realtà sulla base di quella tragedia l’economista di Harvard Michael Kremer disegnò la funzione di produzione O-erre, la quale dà un’interpretazione molto positiva del nostro contributo alla fabbrica predittiva.
La funzione di produzione O-erre concepisce il lavoro come una serie di passi interconnessi, come una serie concatenata di perline come in questa collana.
Per il challenger, ogni singola valvolina doveva funzionare, e cosi anche nella fabbrica predittiva: ogni funzione lavorativa, come ciascuna perlina di questa collana, deve tenere, devono stare tutte insieme perché la fabbrica abbia successo.
Questa situazione ha una implicazione sorprendentemente positiva, e cioè che i miglioramenti nell’affidabilità di una qualunque “perlina della collana” valorizzano l’ottimizzazione di ognuna delle altre. Che cosa voglio dire? voglio dire che aumentando l’affidabilità di una delle perline, questo non rende automaticamente le altre superflue, è sufficiente che anche le altre aumentino la loro funzione, e, nel caso degli esseri umani, il loro carico cognitivo, che si specializza ulteriormente, così da far fronte alle nuove richieste del mondo del lavoro.
Per spiegarlo torniamo ad ACME e alle scarpe di Maria Chiara. Se una singola perlina della collana viene migliorata, ad esempio se automatizzo il taglio della tomaia, la persona prima addetta a quella funzione –diciamo questa perlina qui – innalzerà le sue capacità per adattarsi al nuovo ruolo. Ad esempio imparerà a progettare le scarpe in 3D al computer, così da dare alla macchina per il taglio le giuste istruzioni operative. Questo vale anche per l’ufficio. Se automatizzo il processo di fatturazione ai clienti, il personale adatterà il proprio ruolo concentrandosi sulle strategie finanziarie di lungo termine che consentiranno ad ACME di espandersi sui mercati internazionali.
C’è qui un principio generale: automatizzare una parte del processo non rende superflue le altre attività. Anzi, le rende più importanti, aumentando il loro carico cognitivo ed accrescendo il loro valore economico.
Problemi aperti
Fin qui tutto bene direte voi. Il concetto di lifelong learning, di educazione permanente, vi è sicuramente molto più familiare di quanto non sia a me, quindi è lecito che chiediate: “Se aumentiamo il nostro carico cognitivo abbiamo risolto il problema?”
Non è proprio così, io intravedo almeno due problemi:
- il primo è che la funzione OR non ci dice quanto lunga sarà la collana, fuor di metafora, non sappiamo di quanti posti di lavoro avremo di bisogno. All’inizio del 1900 quando il mio bisnonno Bepi si presentò al mondo del lavoro, il 40% degli italiani era impiegato nei campi. Oggi, meno di un milione di contadini può nutrire una nazione di quasi 60 milioni. È un progresso tecnico straordinario, che implica però una drastica riduzione della forza lavoro. Fino qui del resto nulla di nuovo. Sono passati 200 anni da quando i Luddisti distrussero i primi telai meccanici e la minaccia della disoccupazione tecnologica si è sempre rivelata sbagliata. C’è un aspetto però che rende la fabbrica predittiva diversa da tutto quanto abbiamo visto prima, e veniamo al secondo problema.
- il secondo problema è capire fino a quando riusciremo ad aumentare il nostro carico cognitivo. La quarta rivoluzione industriale, quella dell’intelligenza artificiale, è infatti diversa da qualsiasi altra rivoluzione avvenuta finora, perché per suo stesso presupposto non si esaurirà mai. Il principio fondante dell’intelligenza artificiale, o per meglio dire dell’apprendimento automatico, è che più dati riesco a dare in pasto agli algoritmi, più essi impareranno, migliorando se stessi. Gli algoritmi funzionano così: imparano, tornano allo stesso set di dati, imparano ancora di più e ci ritornano, è un po’ come in un Ottovolante. Siamo vicini a quello che il matematico Irving John Good teorizzava come esplosione dell’intelligenza.
Il futuro del lavoro
Dati questi due problemi come si può immaginare il futuro del lavoro, tenendo presente che secondo il World Economic Forum, il 65% dei lavori di oggi scomparirà.
Secondo Wassily Leontief, Premio Nobel per l’economia 1973, se non riusciamo a immaginare il lavoro del futuro, è perché probabilmente non esiste. Ebbene io non sono d’accordo con Leontief, perché mi pare una visione del tutto restrittiva nei confronti delle capacità di immaginazione dell’essere umano.
Mi spiego con un esempio
Questa in foto sono io con il mio bisnonno, nato nel 1902. Il bisnonno Bepi dall’età di 8 o 9 anni ha fatto il contadino come il 60% degli italiani a quell’epoca, e il contadino ha fatto anche mio nonno.
Ebbene se Leontief si fosse teletrasportato nel 1909 e fosse andato dal mio bisnonno e gli avesse chiesto: ”Cosa ti immagini che farà la tua pronipote nel 2018?” Sfido che mio bisnonno gli avrebbe risposto: “Costruirà modelli predittivi di intelligenza artificiale!”.
Per cui per fortuna qualcosa ci sarà da fare nel futuro anche se oggi non la immaginiamo!
Il compito dell’educazione
E’ a partire da qui che il vostro ruolo di donne e uomini di scuola diventa fondamentale, perché è necessario intervenire ora per preparare i cittadini di domani, cittadini di un mondo che sarà completamente diverso da quello di oggi o da quello che oggi cerchiamo di immaginare.
Cosa possiamo fare? Io credo che sia importante capire quali sono le caratteristiche che ci differenziano da Pepper e da tutti i robot che potremmo inventare. E credo che occorra lavorare per riscrivere il nostro sistema educativo, il nostro contratto sociale in favore di queste caratteristiche.
Io ho immaginato tre caratteristiche fondamentali:
- la prima è la resilienza, la capacità di tenere testa alle avversità. Resilienza è anche, a mio avviso, la capacità di apprendere continuamente. Io sono stata molto fortunata nella mia vita, ho vinto una borsa di studio per andare a studiare in Giappone, era una borsa di studio dedicata alle persone che già lavoravano e con me c’era anche un signore polacco che all’epoca aveva già 55 o 60 anni. Ora, come potete immaginare, all’università in Giappone insegnano in giapponese, così ci fu detto: “Signori avete tre mesi per imparare il giapponese”, non a scrivere perché con gli ideogrammi sarebbe stato un po’ difficile in tre mesi, ma ad ascoltare le lezioni in giapponese. E’ stato molto difficile per me, è stato estremamente dura per il collega polacco. Però con grande resilienza siamo andati entrambi in Giappone e ci siamo anche diplomati. Per questo, io credo, che la resilienza, ossia la capacità di far fronte alle difficoltà, di apprendere continuamente, di rialzarsi, sia sicuramente una caratteristica importante di cui tenere conto nell’educazione, da insegnare ai nostri bambini e alle nostre bambine, ai nostri ragazzi e ragazze, perché domani ce ne sarà molto più bisogno di oggi.
- La seconda caratteristica è l’empatia, i robot di certo non sanno che cos’è quel sentimento che si prova quando si canta tutti la stessa canzone, o quando si sente una musica bellissima. Non lo sanno decisamente. Tutti quei lavori che comprendono l’empatia, il sentire all’unisono, saranno mantenuti ed è davvero necessario saperli coltivare.
- La terza caratteristica è la creatività. L’intelligenza artificiale soprattutto quella che siamo stati capaci di sviluppare fino a oggi è un intelligenza specifica, non simula completamente il funzionamento del cervello umano, simula singole operazioni. Un robot, per esempio, sa battere Kasparov agli scacchi, perché si basa sulla ripetizione delle stesse iterazioni migliaia e migliaia di volte. La creatività non è propria degli algoritmi, anche se oggi fanno vedere dei robot che disegnano quadri. Quella non è creatività, è semplicemente ritornare sullo stesso set di dati per fare quello che potrebbe risultare un’opera d’arte, ma è una copia.
Quindi tutto quanto coinvolge la resilienza la creatività e la l’empatia credo vada assolutamente coltivato nell’educazione dei giovani.
Intelligenza artificiale: per quale società?
C’è un’altra domanda a cui cercare di dare risposta, ed è: “Chi programmerà gli algoritmi del futuro e come verranno programmati?” Oggi la decisione sull’ intelligenza artific iale ci lascia solo due vie:
- la prima è la costruzione di una società resa libera dalle iniquità e dalle discriminazioni dovute all’etnia, al genere, al background familiare e sociale, o alle disabilità. Una società dove il lavoro retribuito sarà una scelta e non una necessità, in nome di un nuovo contratto sociale
- La seconda è l’avvento di una società iniqua, dove la plutocrazia che possiede le fabbriche predittive dovrà chiudersi in fortezze protette da droidi armati, lasciando il resto dell’umanità in miseria.
Esaminiamo entrambe le possibilità.
Se il futuro corrispondesse alla prima via indicata, non dovremmo aver paura delle conseguenze che porta con sé l’intelligenza artificiale. Ma per facilitare questa via dobbiamo pretendere che venga messa da subito in agenda una discussione politica con al centro questi temi, perché rappresentano qualcosa che sta già succedendo e che sicuramente diventerà realtà diffusa nei prossimi 10 anni.
Chi pensa che la mia idea di lavoro come scelta e non come necessità, sia troppo di sinistra, vorrei ricordargli che il primo che l’ha detto fu Richard Nixon, e poi Bill Gates e altri famosi imprenditori, che si sono spesi verso la necessità di ripensare la distribuzione della ricchezza creata dall’ intelligenza artificiale. In fondo quando pensiamo a condizioni sociali, politiche ed economiche in cui la parte di lavoro retribuito è una scelta e dove gli uomini riscrivono un contratto sociale nuovo (per esempio avere un convegno dell’ ADI tutti i giorni !), non sono forse le stesse condizioni di prosperità, di pace, di ricchezza che hanno favorito la nascita del pensiero filosofico in Grecia? Quindi quando sento tanti allarmismi sul futuro che ci riserva l’intelligenza artificiale, a me vien da dire che l’allarmismo esiste solo quando noi non reagiamo, non siamo resilienti e non sappiamo immaginare che oggi abbiamo davvero la possibilità di costruire un futuro nuovo, positivo per l’umanità. Un futuro sicuramente diverso e più inclusivo di quello che conosciamo oggi.
Il percorso della prima via è praticabile, ma non facile, mentre la possibilità di imboccare la seconda via è già insita nel presente.
Io sono un ingegnere bio-medico e la mia tesi di laurea era una maglietta della salute che attraverso le posizioni di tre accelerometri triassiali andava a comunicare gli stati del cammino dei vecchietti al database del computer, poi ho creato un algoritmo che era in grado di prevedere la caduta prima dell’impatto. L’ idea era quella di dotare i nonni con una specie di airbag che potesse rendere la caduta un po’ meno catastrofica. La rottura del femore o dell’anca, le cadute in generale negli anziani sono la prima causa di ospedalizzazione, che poi porta un deterioramento delle capacità fisiche e psicologiche dell’individuo, e anche alla morte. Per cui l’idea di intercettare le cadute era un po’ come risalire alle cause che stanno dietro il deperimento dei nostri vecchietti.
Solo molti anni dopo mi sono resa conto che io avevo testato il mio algoritmo- che poi è diventato un brevetto ed è stato venduto- solo sui miei compagni di corso, che, ad ingegneria, erano tutti uomini. Uomini e donne camminano in una maniera molto diversa, la camminata di un nonno è profondamente diversa da quella di una nonna, ma nessuno dei miei professori dell’epoca se n’è mai accorto.
Questo per dirvi che se non mettiamo sufficiente diversità negli algoritmi, nella programmazione dell’intelligenza artificiale, includendo anche le donne, includendo le minoranze, includendo le persone disabili, rischieremo di dover accettare che le nonne muoiono prima dei nonni, che le nostre bambine abbiano una vita peggiore perché il loro genere non è rappresentato nelle stanze dei bottoni dove questi algoritmi vengono determinati.
Potrei farvi infiniti esempi, basta guardare le inserzioni dei motori di ricerca. Facciamo un solo esempio ora, la parola CEO, amministratore delegato. Lo diciamo in un linguaggio neutro, ma dovrete passare 44 immagini prima di vedere una donna CEO, e guardate quante migliaia di immagini dovete passare prima di vedere una CEO donna nera, e penso che perdereste la pazienza prima di trovare una CEO donna in carrozzina.
Il pregiudizio non è una cosa nuova, non l’abbiamo inventato noi oggi, ma come vi ho spiegato, la continua reiterazione degli algoritmi sullo stesso set di dati rischia veramente di ampliare i pregiudizi e le discriminazioni che sono già nella nostra società.
Quanti di voi pensano davvero di essere liberi dai pregiudizi? Facciamo un piccolo esperimento insieme, esprimete, per alzata di pollice, se la parola che dico vi ricorda qualcosa di positivo (pollice su), o di negativo (pollice giù). Traggo spunto da una lista stilata dal giornalista e scrittore Stefano Bartezzaghi, che sottolinea come le discriminazioni di genere partano dal linguaggio e dal suo uso comune. Vediamo:
a) Massaggiatore = un cinesiterapista, b) Massaggiatrice = una poco di buono
a) Uomo di strada = uomo del popolo, b) Donna di strada = una poco di buono
a) Uomo disponibile = un uomo gentile e premuroso, b) una donna disponibile = una poco di buono
e potrei continuare.
Al di là di questo gioco, che è comunque di per sé significativo, se vogliamo porre rimedio a discriminazioni e pregiudizi dobbiamo creare soprattutto comunità di programmazione le più inclusive possibili.
In Italia la percentuale delle donne che seguono studi nelle discipline cosiddette STEM (Scienze, Tecnologia, Matematica) è superiore al 30%, che è un buon risultato, ma non è sufficientemente ambizioso, tenuto conto che le donne sono il 54% della popolazione italiana. Va pertanto incentivato.
Ed è necessaria la nostra presenza e il nostro lavoro insieme, perché noi oggi davvero abbiamo la possibilità di decidere come sarà la società del domani e ne abbiamo la possibilità con una potenza inaudita, ricordate 10 volte il canale di Panama, nessun’altra generazione prima della nostra ha avuto una tale potenza, un’arma così formidabile.
Sta solo a noi decidere come direzionarla.