Mai come oggi c’è bisogno di comunicazione diretta, avere il coraggio di guardarsi in faccia e parlare apertamente.
Ho ascoltato con molto interesse quello che è stato detto da chi mi ha preceduto: il tema in questione è così interessante, da portare a chiedermi come si può educare al bello nelle periferie geografiche del mondo, come le definisce Papa Francesco, dove lavoro come missionario e cronista.
Questa è una delle dimensioni della testimonianza oggi: capire e comprendere, con il cuore e con la mente, che l’informazione è la prima forma di solidarietà. Oggigiorno il livello di approfondimento culturale è si è abbassato, questo è un fenomeno trasversale ed è inquietante immaginarlo nel perimetro della globalizzazione.
Nel Novecento è vissuto un grande pastore originario della Puglia, Don Tonino Bello, quando parlava della pace la intendeva proprio come s’intende “Shalom” per l’ebraico: convivialità delle differenze, fino a creare un’armonia, non solo benchè differenti, ma perchè differenti.
Guardando il passato, ci si rende conto che non è possibile definire la diversità come un incidente o una disgrazia, ma va inteso come un dono. Purtroppo, nel mondo moderno ci si trova davanti a nazionalismi o sovranismi che impediscono di dare importanza al primato della ragione. Serve quindi che si muovano non solo i neuroni della testa, ma anche quelli del cuore.
“Questa umanità dolente”, così definita da Léopold Sédar Senghor, grande statista senegalese, nelle relazioni tra nord e sud, tra Paesi ricchi e Paesi poveri (in alcuni casi impoveriti) ha dato segno di divisione nel passato. L’obiettivo futuro è un destino comune, di tutti e condiviso, pertanto chiudersi nella “cittadella” significa essere fuori dalla storia e dal tempo.
In passato ho avuto modo di studiare teologia, prima nel Regno Unito e poi alla Makerere University in Uganda: l’esperienza è stata l’esatto contrario di ciò che accade nelle scuole moderne, posso quasi definirlo un decentramento narrativo, come il tornare indietro nel tempo, perché ero l’unico studente bianco in mezzo a centocinquanta ragazzi ugandesi (“the only white spot”). L’Africa, spesso e volentieri, viene considerata un Paese, ma è bene precisare che invece più correttamente è un continente 3 volte più grande dell’Europa, quindi quando si parla di bambini africani sarebbe più corretto parlare di bambini ugandesi, sudafricani, egiziani, …. e non semplicemente africani. Ho voluto fare questa precisazione, perché abitando in quelle terre ho compreso pianamente cosa significa accogliere la diversità, mi ha permesso di capire che alcuni condizionamenti culturali (quelli di partenza, che appartenevano alle mie origini e che avevo assorbito, quasi per osmosi) dovessero essere messi radicalmente in discussione.
Nel film “Africa Paradiso” del 2006 diretto da Sylvestre Amoussou, presentato prima come cortometraggio e poi come lungometraggio al Festival del Cinema di Ouagadougou, viene descritto un mondo capovolto in cui il centro diventa la periferia e a sua volta la periferia diventa il centro. Il film fotografa una Europa in crisi, dove l’euro è diventato carta straccia. La crisi non è solo politica, economica e sociale: è valoriale. L’Europa è implosa dividendosi al suo interno, ci sono lotte interne, divisioni sui Pirenei o in Scozia, lotte fratricide, quasi a tornare nel Medioevo, quindi le istituzioni che si trovavano nel primo mondo si trasferiscono nel terzo mondo: le Afriche sono diventate una nazione enorme, gli “Stati Uniti d’Africa”, la prima potenza mondiale, con una moneta forte. L’ONU ha spostato la sua sede a Nairobi e il Gran Parlamento Africano si trova ad Abuja, in Nigeria. La pellicola fa riflettere sul flusso migratorio di uomini bianchi che tentano disperatamente di attraversare il Mar Mediterraneo o il deserto, per poter entrare nell’Africa subsahariana, diventata il primo mondo. Gli uomini bianchi sono disperati, senza lavoro, chiedono di essere accolti, si apre così il dibattito politico nel Parlamento di Abuja dove ci sono fazioni pro e contro l’ingresso dei bianchi nel Paese. In quel dibattito politico, alla fine vincono quelli a favore. Il messaggio finale è quello di un futuro multietnico per l’umanità: congiunzione tra ciò che nero e ciò che è bianco.
Non sono un docente, sono un giornalista, il mio impegno è quello di raccontare la storia, e questo è stato fondamentale perché mi ha fatto capire quanto sia importante contrastare il pensiero debole, che io personalmente definisco come “antimateria neuronica”.
Il prof. Carlo Cipolla della Università di Berkeley in California, ha scritto “The Basic Laws of Human Stupidity” (Le leggi fondamentali della stupidità umana) dividendo il genere umano in quattro categorie: intelligenti, sprovveduti, stupidi e banditi. L’autore identifica negli stupidi la peggiore categoria perché la stupidità è trasversale, perché fanno male agli altri con i loro atteggiamenti, con i loro comportamenti e poi fanno male anche a sé stessi. La cosa interessante è che il prof. Cipolla identifica gli stupidi come “l’unica entità sociale, capace di far sistema, e di andare d’accordo”. Anche perché il vero problema degli stupidi è che non riescono a cogliere la linea di demarcazione tra ciò che è complicato e ciò che è complesso. Le cose complicate si risolvono (dal lat. complicare «piegare insieme, avvolgere»): immaginiamo quindi un libro di molte pagine, il contenuto potrà essere anche complicato ma, se iniziassi a leggerlo dall’inizio alla fine, troverei una narrazione, una risposta, una soluzione al problema.
Alcuni amano presentare questioni “complesse” come se fossero “complicate”; la complessità è un’altra cosa (dal lat. complexus, con intrecci, con interazioni tra più fattori). Nella complessità non ci sono risposte immediate, e questo bisogna dirlo, bisogna avere il coraggio di comunicarlo ed affermarlo anche ai giovani.
Spesso, quando si parla dei flussi migratori, la questione è definita complicata, anziché complessa. Il fatto quindi non è del colore politico, è quello di comprendere che si è di fronte ad una situazione complessa perché la mobilità umana si inserisce all’interno del perimetro della globalizzazione, che è a sua volta un fenomeno complesso. Quindi se come cittadino italiano e come sacerdote (citando Don Bosco, “per essere buoni cristiani bisogna essere anche buoni cittadini”) ho diritto di affermare il mio diritto di cittadinanza è evidente che devo affrontare anche questioni come l’esclusione sociale o la mancanza di impiego. Bisogna tener conto di quelle che sono le ragioni del Paese ospitante, ma bisogna imparare a tener di conto anche delle ragioni alla base del fenomeno migratorio nelle periferie del mondo. Il cittadino medio non sa cosa succede nell’Africa subsahariana, perché l’informazione riguarda soprattutto la cronaca degli sbarchi, non mostra ciò che avviene nei paesi da dove partono questi flussi migratori. È importante perciò una forma mentis aperta e capace di cogliere le diversità, anche sotto il profilo esistenziale, dove ci sono situazioni distanti dal nostro immaginario, che spesso non vengono raccontate.
Recentemente sono stato nella Repubblica Centro africana, che ha una dimensione due volte quella della Francia, è un paese di 4,5 milioni di abitanti. Potendo fare una proporzione tra le ricchezze enormi di quel Paese (sottosuolo, uranio, diamanti, legname…) con la densità di popolazione, se la gente locale potesse godere delle proprie risorse sarebbero ricchissimi, ma il loro PIL è di 2 miliardi di dollari: per avere un termine di paragone, pensate che il PIL della Francia è di 2000 miliardi di dollari.
Solitamente ogni anno, durante il mese di gennaio si svolge un vertice dell’alta finanza a Davos in Svizzera, a cui partecipano i rappresentanti delle varie nazioni e in questa sede viene presentato il rapporto di Oxfam. Dall’ultimo rapporto emerge che sono 8 persone che da sole hanno una ricchezza superiore ad oltre metà della popolazione mondiale. Non solo: meno dell’1% della popolazione mondiale ha una ricchezza superiore rispetto al resto 99%. Questa a tutti gli effetti può essere considerata esclusione sociale.
La sfida è soprattutto culturale, e la conoscenza è fondamentale: capire che i problemi degli altri sono i miei problemi. Le mie esperienze, le mie ricchezze devono essere condivise per un bene comune. Se la sfida culturale venisse percepita, diventerebbe l’anima dell’azione politica. Questa è la sfida del nostro tempo perchè, come scriveva il grande Thomas Merton, “nessun uomo è un’isola”.