I tassi di abbandono scolastico in Italia sono sempre più alti e costituiscono una ferita sanguinosa nel nostro Paese, soprattutto nelle regioni meridionali, ma non soltanto. Ragazzi che abbandonano la scuola a 14, 15, 16 anni, soprattutto negli istituti professionali, in prima e seconda superiore. Molti ragazzi non tengono il ritmo scolastico e in qualche modo escono affranti, delusi. Si tratta di un fallimento collettivo che riguarda un po’ tutti noi. È un fallimento culturale e anche economico perché sono tanti i talenti sprecati, è un fallimento sociale, umano.
È anche vero che il nostro mestiere, come diceva don Lorenzo Milani, è “il mestiere dei fiaschi”, nel senso che ogni educatore dovrebbe sapere che ciò che lo attende non è soltanto il successo, ma è spesso anche il fallimento e lo si dovrebbe accettare. Tuttavia, dobbiamo ammettere che non possiamo più tollerare una ferita così. E quindi si tratta di riflettere, di capire cosa potremmo fare. Tante cose sono state fatte negli anni anche a livello territoriale nel nostro Paese e ci sono tante azioni virtuose importanti da cui potremmo prendere ispirazione.
Innanzitutto, il sistema della lezione frontale oggi andrebbe affiancato da altre modalità, i ragazzi anche a nuove imprese conoscitive, le chiamo così. Scopriamo le carte, in qualche modo lavoriamo a ingranaggi scoperti: insieme dobbiamo raggiungere un obiettivo io, professore, devo guidare te, studente, verso il raggiungimento di questo obiettivo. Se non riusciamo a farlo, in qualche modo siamo responsabili tutti. Si tratta di capire da dove parte veramente uno studente, e non lo si può comprendere soltanto nel momento in cui valutiamo i suoi test di apprendimento a settembre. Lo comprendiamo soltanto se conosciamo la famiglia da cui proviene, se conosciamo il ragazzo stesso. Questo sguardo personale è la prima cosa che dovremmo affermare e per affermare questo sguardo personale si tratta di coinvolgere noi stessi come persone, noi come docenti. Il ripetente, l’indisciplinato, il ribelle, colui che abbandona la scuola, forse ti può insegnare qualcosa che lo studente bravo, affettuoso, quello sempre promosso, ti nasconde. Nella mia attività di insegnante di lettere negli istituti professionali per l’industria e l’artigianato dove ho sempre operato a contatto con ragazzi che poi sarebbero diventati elettricisti o meccanici o idraulici, mi sono sempre messo in ascolto e come tanti colleghi ho cercato anche di imparare da loro.
Questa è la ragione che mi ha fatto andare verso questi ragazzi e proprio pensando a loro ho fondato una nuova scuola insieme a mia moglie Anna Lucia Lenzi. Abbiamo fondato tanti anni fa, 15 anni fa ormai, le scuole Penny Wirton, dal titolo di un romanzo di Silvio D’Arzo, Penny Wirton e sua madre. Sono scuole per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati, che oggi sono presenti in quasi 60 postazioni in tutta Italia, dalla Sicilia al Friuli-Venezia Giulia fino in Ticino. Sono scuole di italiano basate sul rapporto 1 a 1, senza classi, senza burocrazie – perché accogliamo tutti – senza finanziamenti e con uno sguardo appunto personale e quindi senza valutazione oggettiva. Si parte dalla persona che hai di fronte. Se hai di fronte Irina, laureata a Kiev, ti comporti in un certo modo perché lei è scolarizzata. Però se hai di fronte Ibrahim o Mohamed, analfabeti nella lingua madre che non hanno mai tenuto una penna in mano, che non sanno leggere e scrivere nella loro lingua, ti comporti in un altro modo.
Per questa ragione abbiamo scritto un volume che in realtà è composto da due tomi, dal titolo “Italiani anche noi”. Un libro, un manuale di apprendimento della lingua italiana, con tanti disegni soprattutto e poca normativa grammaticale, basato molto sul rapporto con una lingua viva, che va insegnata in modo nuovo a seconda della persona che hai di fronte, con tanti materiali di ludo-didattica che abbiamo impostato negli anni. Attraverso questi materiali cerchiamo di insegnare la nostra lingua, anche grazie a molti ragazzi italiani. L’ex alternanza scuola-lavoro infatti ci consente di stipulare protocolli di intesa con licei e istituti superiori italiani che ci mandano i loro ragazzi e noi li mettiamo in affiancamento ad una coppia ancora in azione di insegnante e immigrato. E vedo che questi ragazzi hanno delle reazioni straordinarie, riescono ad auto-motivarsi e imparano loro stessi qualcosa di importante, insegnando la loro lingua ai coetanei immigrati. Mettere insieme questi nostri figli con i loro coetanei immigrati è molto importante. Molte di queste scuole Penny Wirton sono all’interno delle scuole pubbliche, ad esempio, nel liceo Marco Polo, un istituto tecnico per il turismo di Firenze. Abbiamo la possibilità di vedere nello stesso istituto statale molti ragazzi che insegnano italiano agli immigrati che vanno al pomeriggio lì.
Questo sguardo personale, il clima di fiducia, di rispetto, di amicizia, tutto questo è molto importante per creare quel clima positivo affinché la scuola possa diventare un luogo in cui la vita è intensificata e quindi non la scuola come luogo separato dalla società ma la scuola come luogo di apprendimento personalizzato.
Cosa può imparare la scuola statale da un’esperienza come quella delle Penny Wirton? Credo che questa sia una domanda importante. L’ho fatta a un liceale che faceva con noi il PCTO. Gli ho chiesto: “Cosa potresti dire alla scuola che tu ben conosci, la scuola della mattina. In che modo la scuola potrebbe mettere a frutto l’esperienza che tu, come adolescente, stai facendo qui alla Penny Wirton?”. Lui mi ha risposto così: “Professore, io penso che la prima cosa da fare sarebbe quella di cambiare il sistema della valutazione”. Allora gli ho chiesto “Fammi un esempio. Perché la valutazione?” E lui mi ha detto: “Per esempio, alla mattina, al liceo che frequento” – credo fosse il liceo Tasso di Roma – “se io rispondo al professore a modo mio, magari raggiungendo il risultato che lui mi ha chiesto, però non seguendo lo schema che lui mi ha indicato, non mi valorizza ma mi penalizza, mi mette un brutto voto. Anche se ho risposto correttamente, non ho risposto come voleva lui e mi mette un brutto voto, non mi valorizza”. E allora io gli ho chiesto: “Ma perché tu come fai qui al pomeriggio quando diventi un professore?” E lui mi ha detto: “Beh io, per esempio, mi ero preparato uno schema, un mio schema per insegnare il verbo essere e il verbo avere a un uomo, un nigeriano, perché mi avevate assegnato questo studente. E ho visto che questo mio schema non funzionava perché lui non imparava”. “Allora come hai fatto?”. “Beh, io per esempio ho cercato di cambiare lo schema che mi ero preparato e ho visto che ricorrendo ad alcuni strumenti che avevo, con parole colorate, alfabeti mobili che voi mi avevate messo a disposizione, sono riuscito a insegnare il verbo essere e il verbo avere a questo studente nigeriano non come io avevo pensato, ma basandomi su di lui, sulla persona che avevo di fronte, quindi modificando il mio schema mentale. E a quel punto, quando ho visto che con lui funzionava, a quel punto gli ho messo un bel voto”. In realtà noi non mettiamo voti però l’ha incoraggiato.
Claudio, così si chiamava lo studente, con questa riflessione mi ha fatto capire tante cose. Mi ha fatto capire che noi, come docenti, non dovremmo essere schiavi del risultato che ci siamo prefissi, non dovremmo limitarci a fare questo, ma dovremmo anche essere flessibili, pronti a cambiare le nostre pianificazioni. Certo, attenzione, noi stiamo parlando di abbandoni scolastici, siamo partiti da lì. Stiamo parlando, cioè, di ragazzini che abbandonano la scuola a 13, 14, 15, 16 anni. Quindi stiamo parlando di persone che vanno motivate, la cui autostima va ricostruita perché sono tutti ragazzi delusi. Stiamo parlando di motivazioni nuove da ricostruire. Allora ecco che il discorso della flessibilità acquista un valore. Bisogna comunque riportarli all’interno del circuito scolastico, e solo dopo si porrà il problema della valutazione oggettiva standardizzata.
Quindi, per sintetizzare, vorrei dire che, di fronte a sfide molto difficili, bisogna riprogettare gli spazi scolastici, dobbiamo superare la lezione frontale, dobbiamo creare un lavoro di équipe, dobbiamo lavorare a ingranaggi scoperti. La pandemia ce l’ha insegnato, dobbiamo fare in modo che i ragazzi capiscano, ma dovremo capirlo anche noi, che non soltanto i deboli hanno bisogno dei forti, ma anche i forti hanno bisogno dei deboli.
Soltanto in questo modo noi capiremo che, se perdi un ragazzo il problema non è soltanto suo, ma è di tutti noi perché non si può essere felici se l’infelicità colpisce chi ti sta vicino. Ecco, se riuscissimo a far capire questo ai ragazzi – e a noi stessi – avremo realizzato veramente l’obiettivo primario di ogni scuola: portare alla maggiore età i ragazzi che abbiamo davanti.