INTRODUZIONE
Utilizzo questa intervista di Puyou Jacques, Professore associato di matematica e Segretario nazionale dell’An@é, per presentare il nuovo libro di François Dubet L’Ecole peut-elle sauver la démocratie? ed.Seuil, 27/08/2020, scritto insieme a Marie Duru-Bellat.
François Dubet è ben noto a tutti noi di ADi, per essere stato molte volte ospite ai nostri seminari internazionali, con relazioni pregnanti e particolarmente incisive anche rispetto alla nostra tradizione scolastica.
La prima volta fu nel seminario del 2011, Il dito e la luna dove trattò delle disuguaglianze sociali e scolastiche e, avendo partecipato alla commissione Thélot per la definizione dello zoccolo comune di competenze per la scuola primaria e il collége, si soffermò anche sul fallimento del collége, con un’analisi che poteva ben attagliarsi alla nostra scuola media unica. Disse allora Dubet: “Quando abbiamo creato quello che noi chiamiamo collège, ossia la scuola media unica di quattro anni dagli 11 ai 15 anni, avevamo semplicemente in mente di estendere a tutti gli studenti il modello borghese di scuola, il ginnasio, anticamera del liceo. La vocazione del collège è infatti rimasta quella della vecchia cultura «borghese» riservata alle élites. Il risultato è sotto agli occhi di tutti. Come è stato possibile pensare che tutti gli studenti fossero fatti per quel tipo di scuola? Gli unici che si potevano aggiungere ai figli delle classi borghesi erano i figli del popolo particolarmente bravi, molto dotati, che potevano avere borse di studio. Ma di tutti gli altri, in nome della grandeur della Repubblica, abbiamo fatto una strage.”
Tornò anche l’anno dopo, nel 2012 al seminario internazionale O la scuola o la vita, dove con una brillante relazione trattò della mutazione del ruolo degli studenti e del fallimento dell’impostazione della scuola di massa. Affermava allora Dubet:
“Nel liceo tradizionale gli allievi si piegavano e apprendevano senza problemi il ruolo sociale, il mestiere di studente. Oggi quali buone ragioni possono avere i giovani per impegnarsi negli studi? Quale motivazione quando la distanza fra la cultura scolastica e la cultura giovanile è enorme e spesso anche conflittuale; l’utilità sociale degli studi è una realtà differita e non si percepisce a cosa serva ciò che si impara; i gusti intellettuali degli allievi faticano ad adeguarsi a ciò che è scolasticamente utile. Ciò che occorre capire è che siamo in presenza di una mutazione radicale della natura stessa della istituzione scolastica e dei processi di trasmissione. Non si può continuare a pensare che la scuola di massa significhi elargire il vecchio liceo a tutti. Gli insegnanti però non riescono ancora ad assumere questa mutazione. Singolarmente molti cercano di affrontare al meglio la loro funzione, ma collettivamente mantengono concezioni assolutamente tradizionali dell’insegnamento. Una questione determinante è dunque la formazione degli insegnanti. I Paesi che hanno i migliori risultati sono quelli che dedicano impegno e risorse a formare i propri docenti. Di qui bisogna partire se si desidera uscire dal racconto della crisi e dalla nostalgia.”
Infine l’abbiamo avuto ospite, sette anni dopo, nel seminario internazionale del 2019, La grande incertezza. La sua relazione fu un’analisi puntuale delle successive trasformazioni della scuola e un esame lucido e insieme spietato delle tre “delusioni”, così le chiamò, prodotte dalla scuola di massa: 1) le grandi disuguaglianze scolastiche, 2) l’incapacità dell’’istruzione di rendere gli uomini migliori e le società più civilizzate, 3) la crisi della cultura scolastica. E concludeva : “Qual è la cultura comune, che tutti gli studenti devono acquisire come bene condiviso indipendentemente dalle loro origini e dai loro percorsi? Di fronte alla globalizzazione delle culture e delle economie, molti Paesi sono attraversati da potenti movimenti popolari nazionalisti e conservatori. Ma d’altra parte viviamo in nazioni e la nazione rimane il quadro essenziale dei diritti e della democrazia, ma le nazioni non sono più comunità omogenee. E’ quindi necessario reinventare delle narrazioni nazionali in cui anche gli “altri” trovino un posto. Contro la tradizionale narrativa mitica nazionale, la scuola dovrebbe costruire una narrazione in cui la nazione è nel mondo, in cui le minoranze e i migranti hanno un posto, in cui la nazione è un’arte di vivere insieme, un patriottismo di cittadini piuttosto che un’identità basata sul rifiuto degli altri. Ebbene io spero che gli insegnanti saranno capaci di resistere ai brutti venti che stanno soffiando, e sapranno difendere nelle pratiche la scuola del “patriottismo costituzionale”, secondo la definizione di Habermas, e insieme saremo in grado, forse con meno ambizioni, di assumerci le nostre responsabilità nei confronti dei fallimenti degli ultimi cinquant’anni, fallimenti che dobbiamo guardare in faccia senza se e senza ma.”
E veniamo alla recente opera, Può la scuola salvare la democrazia?
Nel libro, uscito la scorsa estate, si ripropongono le delusioni della scuola di massa, in particolare delle tre promesse che la sostenevano: 1) una promessa di giustizia, 2) una promessa di efficienza; 3) una promessa di democrazia.
La scuola è rimasta favorevole ai “vincitori” di un tempo, molto meno ai “vinti”. E il perdurare delle disuguaglianze educative non costituisce solo un’ingiustizia; i loro effetti minacciano la coesione sociale e la democrazia stessa. L’uguaglianza di opportunità non può essere l’unico ideale di giustizia. Afferma Dubet che è più facile prendersi cura di coloro che meritano di essere “i primi della classe” piuttosto che di quelli che non lo saranno mai, eppure sono questi ultimi la vera priorità. E dopo tante delusioni, Dubet è ora propenso a pensare che le trasformazioni della cultura dell’insegnamento arriveranno più dalla base che dall’alto.
PUÒ LA SCUOLA SALVARE LA DEMOCRAZIA?
TESTO DELL’INTERVISTA
L’avvento della scuola di massa a partire dagli anni ’60 è stato sostenuto da tre promesse: 1. La scuola democratica di massa doveva essere più giusta e meno diseguale della vecchia scuola. 2. Questa scuola doveva anche sviluppare competenze, favorire la crescita ed essere utile a tutti gli studenti. 3. Infine, avrebbe dovuto promuovere la fiducia e l’adesione ai valori della democrazia. François Dubet, professore emerito presso l’Università di Bordeaux e direttore degli studi presso EHESS e Marie Duru-Bellat, professoressa emerita presso Sciences Po-Paris, analizzano questo lungo processo di massificazione dell’istruzione nel libro L’Ecole peut-elle sauver la démocratie? ed.Seuil,27/08/2020, e ne deducono che i risultati sono quanto meno poco chiari.
In occasione dell’uscita di questo libro, abbiamo posto tre domande a François Dubet.
JP: L’accesso di massa agli studi e ai diplomi, il cui aspetto positivo è indiscutibile, ha tuttavia creato disuguaglianze da parte della scuola e nella scuola. Come si spiega questo apparente paradosso?
FD: In Francia e altrove, l’istruzione di massa si basava su tre “promesse”: una promessa di giustizia, una promessa di efficienza e una promessa di democrazia.
La promessa di giustizia è stata ampiamente mantenuta grazie ai notevoli progressi compiuti in materia di parità di accesso all’istruzione secondaria e superiore. I i figli delle classi meno abbienti hanno avuto ampio accesso agli studi dai quali erano sostanzialmente esclusi fino agli anni ’60. Per quanto riguarda le ragazze, ora superano i ragazzi nel successo scolastico.
Non si tratta quindi di mettere in discussione la scuola di massa. Ma questa ha generato un profondo mutamento nei meccanismi di disuguaglianza: oramai è la scuola più che la società a selezionare lungo il percorso scolastico.
Le “piccole” disuguaglianze iniziali si ingigantiscono durante il percorso di studi e il sistema stesso è iper-gerarchizzato tra corsi, opzioni, istituti, discipline… Si gioca tutto all’interno della scuola e si capisce la delusione che ne deriva quando da una parte la scuola apre le porte a tutti ma, alla fine, vincitori e vinti della competizione scolastica sono gli stessi di un tempo. La parità di accesso non si è quindi trasformata in pari opportunità. È anche vero che in termini di parità di opportunità educative, la Francia non è messa particolarmente bene: le disuguaglianze educative rimangono molto forti e il perpetuarsi di queste disuguaglianze pesa più qui che altrove. Ci si dovrebbe davvero chiedere perché è così.
La promessa di efficienza postulava che l’innalzamento del livello di istruzione aumentasse le competenze di tutti e che tutti beneficiassero di un’economia più efficiente, salari più alti… Anche qui può sembrare che la promessa sia stata ampiamente mantenuta. Ma, dal punto di vista dei singoli individui, le cose sono un po’ diverse e la delusione è grande. Se da una parte i vincitori della competizione scolastica ottengono diplomi molto redditizi, a volte persino delle rendite, i perdenti dall’altra sono veramente penalizzati e condannati alla disoccupazione e alla precarietà. I giovani, poi, sono condannati a un lungo processo di inflazione dei diplomi: è necessario studiare sempre più a lungo per raggiungere la stessa posizione di quella dei genitori. Questi giovani stanno entrando in un percorso di inserimento lunghissimo e molti di loro avranno un lavoro non coerente con loro formazione.
Anche qui c’è una singolarità tutta francese, quella del fortissimo peso che ha il diploma rispetto all’accesso al lavoro. Senza il diploma non c’è salvezza, come se il merito scolastico schiacciasse tutte le altre forme di merito. Molti la vivono come un’umiliazione per tutta la vita. Questo forte peso dei diplomi è tanto più discutibile se si pensa a quanto le disuguaglianze educative sancite dai diplomi superino le disuguaglianze tra le competenze che gli individui mobilitano nella vita quotidiana e sul lavoro. Anche qui la scuola “fa troppo”.
La terza promessa è quella della democrazia. Più gli individui sono istruiti, più aderiscono ai valori della democrazia portati dalla scuola: fiducia negli altri e nelle istituzioni, tolleranza, fede nella scienza e nella ragione… In qualche modo questi valori sono tutti progrediti complessivamente, ma non possiamo sapere se sia effetto della scolarizzazione perché ne sono interessate tutte le fasce d’età. D’altra parte, sembra che l’influenza culturale ed educativa della scuola sia diminuita con l’avvento della scuola di massa. Sebbene la scuola statale godesse di una certa autorità culturale, questa autorità è costantemente diminuita tra i giovani, compresi i bravi studenti, che trascorrono più tempo davanti agli schermi che davanti alla lavagna.
Oggi la scoperta del mondo e di se stessi passa più attraverso questi media che attraverso la scuola, e non ha senso denunciare questo fenomeno. Quando guardiamo le cose più da vicino, la scuola si traduce in una forte adesione ai valori democratici solo tra i vincitori della competizione scolastica, coloro che hanno studiato più a lungo, in modo più selettivo e più redditizio. Al contrario, i vinti sono tentati di rifiutare i valori della scuola che percepiscono come una forma di violazione dei loro diritti e di dominio.
Questo meccanismo non è privo di conseguenze politiche: in Francia e in paesi analoghi, gli elettori meno istruiti, meno borghesi, smettono di votare o votano per i partiti dei leader populisti spesso di estrema destra, mentre gli elettori laureati votano per i partiti liberali, ambientalisti e socialdemocratici. Si tratta di un’inversione totale rispetto agli anni ’80. La spiegazione non sta tutta nella scuola di massa, ovviamente, ma la scuola di massa gioca un ruolo in queste divisioni in base ai titoli di studio.
JP: Come possiamo restituire virtù alla scuola di massa e consentirle di raggiungere gli obiettivi che erano stati prefissati sin dall’inizio?
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FD: È sempre facile dire cosa si dovrebbe fare, anche se non è così semplice in quanto il sistema attuale si confà alle classi medio-alte che spesso quando denunciano le disuguaglianze lo fanno opponendosi ai cambiamenti. Quindi bisogna essere prudenti.
Per quanto riguarda le disuguaglianze, la scuola francese dovrebbe rompere con l’elitarismo che porta a dare la priorità a studenti e corsi di formazione basandosi su uno standard di eccellenza riservato, per natura e per principio, a pochi. Dovremmo rompere con la separazione negativa di tutti coloro che non saranno l’élite ma che hanno quasi il dovere di pretendere di esserlo. Mentre da un lato è un bene democratizzare l’accesso ai corsi più selettivi, dall’altro è molto più importante garantire la qualità della formazione dei “perdenti”. Ciò è necessario sia per loro, ma anche per la società nel suo insieme in modo che non si sviluppino sentimenti insieme di disprezzo e di odio. È più facile prendersi cura di coloro che meritano di essere “i primi della classe” che di quelli che non lo saranno mai, eppure questi ultimi sono la priorità.
Questo spostamento di risorse verso gli studenti più deboli affinché acquisiscano ciò a cui hanno diritto, suppone di indebolire il peso del merito scolastico rispetto ad altre forme di merito altrettanto utili alla nostra vita comune e alla nostra economia.
Dobbiamo rivedere i legami tra diplomi e occupazione, moltiplicare le forme di apprendistato e di studio-lavoro, consentire un flusso continuo tra occupazione e formazione. Molti paesi lo fanno meglio del nostro perché il merito degli individui è meno determinato dal loro titolo di studio. Sarebbe necessario allontanarsi dal connubio formale tra diploma e lavoro che funziona solo per i percorsi formativi più selettivi e per la formazione di nicchia.
La vocazione democratica della scuola si scontra con la perdita dell’autorità culturale della scuola e non credo che sarà ripristinata da lezioni di moralità e di educazione civica. È quindi necessario che l’educazione alla cittadinanza e alle virtù democratiche proceda dall’esperienza stessa degli alunni, dalla vita comune a scuola, dalle attività condivise, dal passaggio di responsabilità agli alunni. Anche se rischio di ripetermi, resto convinto che la scuola debba diventare una comunità educativa e non solo un più o meno pacifico abbinamento di classi e ore di lezione.
Questi orientamenti richiedono innanzitutto profondi cambiamenti culturali, più che cambiamenti nell’organizzazione, nei programmi e nella gestione.
Tuttavia, questi cambiamenti culturali sono tanto più difficili per la scuola francese che beneficia o soffre di uno status molto speciale. Poiché la scuola statale era considerata una sorta di Chiesa laica responsabile del “salvataggio” della società, si è tentati di pensare che il merito scolastico non sia solo questo, ma sia un “bene salvifico”, una grandezza morale. Allo stesso modo, la scuola è sempre portata a credere di essere meno ingiusta e più equa della società e a sospettare che l’economia sia sempre più ingiusta e corrotta. Ciò rende l’integrazione della formazione professionale con l’istruzione scolastica più difficile da noi che nei paesi socialdemocratici, e anche in quelli più liberali. Il grande pessimismo dei giovani francesi è la conseguenza di questa scissione: nessuna seconda o terza possibilità e fuori dalla scuola, nessuna salvezza! Infine, la tradizione scolastica francese rimane profondamente “accademica”; la vita in comune, la gioventù, il lavoro collettivo… il più delle volte rimangono “extracurriculari” e conosciamo la forza dei movimenti contro “l’animazione socio-culturale”, “la pedagogia” e altre cosiddette minacce alla grandezza delle nostre tradizioni.
JP: La crisi provocata da covid19 da qualche mese scuote l’intero sistema educativo, che si sta adattando al meglio a situazioni impreviste. Quali benefici potrebbe trarre la scuola da questo periodo difficile per tutti?
FD: Una volta che il virus sarà sparito, la pandemia potrebbe cambiare la scuola molto più profondamente di quanto abbiano fatto le tante riforme e linee guida educative, se davvero lo vogliamo. Penso ad alcuni punti.
Dopo il lockdown, nessuno potrà ignorare che la “co-educazione” con le famiglie sia fonte di notevoli disuguaglianze. Nessuno può ignorare o fingere di ignorare che i compiti a casa esasperano le disparità in termini di disponibilità e risorse culturali tra le famiglie deprivate e quelle che spesso dedicano ore ad aiutare i propri figli, a volte sostituendosi nel fare le relazioni dei figli e i loro compiti a casa. D’ora in poi, se ci sono i compiti, la scuola dovrà occuparsene da sola o preoccuparsi seriamente delle condizioni di vita e di studio degli studenti.
Spesso riluttante nei confronti delle nuove tecnologie e degli incontri video, la scuola ha dovuto affrontarli per comunicare con gli alunni, fare lezioni ed esercitazioni, seguire ogni allievo, e in questo campo molti insegnanti “si sono messi in gioco”. Sebbene sia ovvio che i computer e i video non sostituiranno mai gli insegnanti, è altrettanto ovvio che tutte queste tecnologie sono entrate nell’insegnamento. Gli insegnanti dovrebbero essere formati, le scuole dovrebbero essere attrezzate e gli studenti dovrebbero avere strumenti informatici oltre ai libri di testo.
Il lockdown ci ha ricordato la vocazione educativa della scuola. Gli alunni hanno sofferto meno per la mancanza di lezioni e corsi rispetto alla mancanza di vita in comune a scuola. Cresciamo a scuola perché ci confrontiamo con gli altri, con coetanei e adulti. Queste relazioni più o meno felici sono al centro dell’educazione, della formazione degli individui, della capacità di conoscere se stessi e di comprendere il mondo. Per gli studenti, amori, amicizie, gusti condivisi, odi e conflitti non sono impedimenti a scuola perché è lì che imparano a convivere con gli altri e a sapere chi sono. Questa osservazione è banale. Tuttavia, la tradizione scolastica francese rimane fortemente accademica. Potremmo sognare una scuola che smetta di contrapporre bambini e adolescenti ad alunni e studenti che sono lì solo per imparare e che spesso imparano solo le regole della selezione.
La lezione principale della pandemia è politica. Durante il confinamento, la maggior parte degli insegnanti si è mobilitata come probabilmente non avrebbe mai fatto se un ministro l’avesse richiesto. Hanno usato strumenti di cui a volte avevano poca padronanza, si sono preoccupati degli studenti che lasciavano gli studi, hanno lavorato con i colleghi, hanno accettato un controllo continuo all’esame di maturità che inorridiva molti.
La lezione che dovremmo trarre da questo momento storico è questa: piuttosto che credere che il cambiamento venga sempre dall’alto, dal ministero e dalla catena di comando, potremmo pensare che il cambiamento venga dal basso, dal dinamismo e mobilitazione di insegnanti e team educativi. Le trasformazioni della cultura dell’insegnamento, della pedagogia e delle équipe educative arriveranno più dalla base che dall’alto. Affinché queste esperienze non si perdano, i leader politici devono comprenderle sostenendo chi si muove, allocando i mezzi dove servono, rompendo con l’immobilismo burocratico che, come ben sappiamo, non garantisce né l’efficienza, né l’equità della scuola. I sindacati inoltre non dovrebbero difendere il ritorno allo status quo ante. Sarebbe una rivoluzione silenziosa più decisiva e più profonda di tutte le riforme e dei “tavoli di contrattazione” che si perdono nelle sabbie della routine e dei vari interessi.
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Intervista di Puyou Jacques, Professore associato di matematica e Segretario nazionale dell’An@é.
François Dubet è professore emerito all’Università di Bordeaux-II e direttore degli studi presso l’Ecole des hautes études en sciences sociales (EHESS). Ultimo lavoro pubblicato: Il tempo delle passioni tristi: disuguaglianze e populismo, (Coédition Seuil-La République des idées, marzo 2019).
Il testo francese si trova a questo link