INTRODUZIONE
In questi ultimi vent’anni c’è stato uno straordinario sviluppo delle neuroscienze, ma è sbagliato pensare che dai risultati neuroscientifici discendano applicazioni automatiche per l’insegnamento e soluzioni definitive ai problemi che affrontiamo con i nostri studenti.
Falsi miti
Chi lo sostiene spesso è influenzato dalla divulgazione, ma la divulgazione produce semplificazione, produce miti, come il ruolo diverso che giocherebbero gli emisferi cerebrali, l’emisfero sinistro verbale e razionale, e l’emisfero destro emotivo e creativo. Sono affermazioni quantomeno fuorvianti. Questo tipo di dicotomie funzionava 50 anni fa, ma non è più così. Altrettanto sbagliato è affermare che quando si devono affrontare due problemi contemporaneamente questi vengono suddivisi fra i due emisferi, e tutto si complica perché il cervello deve decidere a quale compito dedicare le risorse.
Ci sono dunque miti, idee sbagliate che circolano, questo però non significa assolutamente che neuroscienze ed educazione non debbano dialogare, ma semplicemente che ognuno deve attenersi al proprio ambito. La scienza indaga e descrive la realtà, spiega ma non prescrive, non dà suggerimenti; lo scienziato offre modelli, possibilità di interpretazione, propone analisi e suggerisce ipotesi di intervento, ma non può imporre soluzioni, non può dare ricette. Bisogna diffidare di coloro che propongono certezze o si presentano con soluzioni definitive.
Voglio portarvi un esempio, lontano nel tempo per evitare polemiche.
Sulla rivista DRAMATIC MIRROR, che usciva a New York tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, fu pubblicata, nel fascicolo di luglio del 1913, un’ intervista a Thomas Alva Edison, il noto inventore. Gli venne chiesto un parere sul ruolo del cinema in ambito educativo.
“I libri” dichiarò l’inventore con decisione “saranno presto obsoleti nelle scuole pubbliche, gli studenti impareranno attraverso gli occhi. E’ possibile insegnare ogni branca della conoscenza umana con il cinema, il sistema scolastico cambierà completamente nei prossimi 10 anni. E’ dimostrato e concluso definitivamente il valore del cinema nella chimica, fisica, in algebra, ma anche in altre branche dello studio, rendendo le verità scientifiche, che sono difficili da comprendere, semplici e lineari per i ragazzi”.
Ora, come è noto, le cose non sono andate così, i libri non sono scomparsi dopo 10 anni, la scuola non è cambiata, però queste parole continuiamo a sentirle ripetere di fronte a ogni innovazione. Le abbiamo sentite anche recentemente in relazione all’introduzione dei dispositivi digitali. Bisogna diffidare di queste certezze.
Contributi delle neuroscienze all’attività in classe: finora marginali
Se esaminiamo i contributi delle neuroscienze all’attività in classe, di cui si è parlato in questi ultimi anni, vediamo che alcuni sono marginali, ridurre le vacanze estive; altri non praticabili, posticipare l’inizio delle lezioni la mattina; altri ancora generici, variare le modalità di insegnamento, far divertire i ragazzi, tanto generici da essersi persino tradotti in esperienze bizzarre, per esempio un insegnante di Cincinnati spiega le scienze dei materiali parlando dell’abbigliamento dei clown e vestendosi come un Clown; oppure un’insegnante di biologia in Olanda usa dei disegni sul proprio corpo per spiegare il corpo umano e i suoi diversi organi.
Neuromania
Le neuroscienze hanno sviluppato straordinarie tecniche di neuroimmagine, tecniche di neurostimolazione, e tutto questo sta alla base del successo, dell’interesse, del fascino che esercitano su tutti noi, sull’opinione pubblica ed è alla base di quel fenomeno che Legrenzi e Umiltà, in un libro molto celebre, hanno chiamato Neuromania. Gli autori mettono come sottotitolo “Il cervello non spiega chi siamo”, ma nell’edizione inglese diventa “ I limiti della scienza del cervello”, con una indicazione chiara di tali limiti, per l’appunto.
Neuroscienze e scienze cognitive
Ho scritto anni fa che il contributo che le neuroscienze possono offrire alla didattica è straordinario, ma è sbagliato credere che il cervello nasconda la ricetta per risolvere i mali della scuola.
In un altro intervento ho affermato che le teorie sulla mente, non quelle sul cervello, sono rilevanti per l’educazione. Ciò vuol dire che a una serie di domande centrali che ci poniamo- come si studia, come si insegna– rispondono le scienze cognitive, cioè quelle discipline che studiano la mente, i processi mentali, quei processi, cioè, che ci consentono di acquisire conoscenza e di interagire con l’ambiente. Le scienze cognitive vanno distinte dalle neuroscienze cognitive che invece sono quelle discipline che studiano il funzionamento del cervello, le basi neurali dei processi cognitivi, il substrato neurobiologico dei processi mentali. Quel prefisso neuro, che ha dato origine a tante discipline, indica che l’obiettivo di tali discipline è il cervello e non la mente. A volte si tratta di discipline che studiano il comportamento di persone con lesioni cerebrali o con un mal funzionamento del cervello sia per intervenire in termini riabilitativi o ri-educativi, sia per capire il funzionamento del cervello in persone normali. Ma per comprendere come si studia, come si impara, bisogna rivolgersi alle scienze cognitive.
La relazione affronterà tre temi
Oggi il tema è comunque quello delle neuroscienze, e quindi cercherò di indagare con alcuni esempi qual è il contributo di queste discipline all’educazione.
Personalmente credo che sia un contributo importante ma indiretto, dobbiamo cioè considerare i risultati neuroscientifici e porre una serie di domande per trarre degli orientamenti, delle opportunità in termini educativi.
Affronterò tre temi:
- Frazionamento della conoscenza
- Consolidamento e ri-consolidamento della traccia di memoria
- Neuroplasticità e periodi critici
1°TEMA: FRAZIONAMENTO DELLA CONOSCENZA
La ricerca neuroscientifica, la neuropsicologia, ha studiato pazienti con amnesia conseguente a lesioni del cervello, una lunga storia di ricerca che nasce con la prima osservazione di un paziente HM, il quale presentava una gravissima amnesia conseguente a una lesione bilaterale che interessava le porzioni mediali dei lobi temporali. Una amnesia gravissima che gli impediva di ricordare quello che faceva. La sua storia è raccontata nel libro “Prigioniero del presente”, è la storia di una persona che viveva in una sorta di eterno presente.
A partire dagli studi su questi pazienti ora è dimostrato che la conoscenza è articolata, è frazionata in tre componenti:
- una memoria semantica, che è la memoria delle conoscenze generali, quello che sappiamo del mondo, quello che abbiamo appreso a scuola, quello che è associato al verbo sapere,
- una memoria episodica, che comprende tutto ciò che riguarda le nostre esperienze personali, a cui è associato il verbo ricordare,
- una memoria procedurale, che è associata al verbo saper fare, che comprende le procedure, le abilità sia senso-motorie sia cognitive, la sintassi, i calcoli.
Tre componenti di memoria distinti, separati, autonomi.
Il paziente HM, prima menzionato, aveva un disturbo a carico della memoria episodica, ma le altre due memorie erano integre. Ci sono casi che hanno quadri diversi, o un disturbo selettivo della memoria procedurale o un disturbo selettivo della memoria semantica.
Memorie indipendenti, che cosa significa questa indipendenza?
Per esempio se io faccio un viaggio a Parigi, i ricordi di quell’ esperienza sono memoria episodica, mentre tutto quello che so della Francia e anche di Parigi è memoria semantica. Parigi è rappresentato nella memoria episodica come sede del mio viaggio mentre lo è nella memoria semantica all’interno delle mie conoscenze geografiche e di tutto quello che io so della Francia.
La memoria episodica è sicuramente importante per costruire un sapere, ma io non devo andare in tutte le città per conoscere la Francia, anzi devo sganciarmi dall’esperienza specifica per poter inserire la mia esperienza in una rete di conoscenze che è indipendente da quello che ho fatto, per l’appunto nella memoria semantica.
Ma non basta. Quello che io so guida la mia esperienza quotidiana, ma non la esaurisce; la componente emozionale, per esempio, non arriva da quello che ho appreso attraverso la memoria semantica. Sono memorie diverse che interagiscono in modo indipendente, e una non va privilegiata rispetto all’altra.
E veniamo alla memoria procedurale. In un testo scritto, per esempio, possiamo trovare esperienze personali che provengono dalla memoria episodica, competenze lessicali che vengono dalla memoria semantica, e abilità sintattiche e ortografiche che vengono dalla memoria procedurale.
Sono tre forme di conoscenza ugualmente importanti, nessuna va privilegiata rispetto alle altre. Personalmente rimango sconcertato quando sento colleghi dire “non bisogna insegnare l’ortografia e la grammatica, bisogna privilegiare altre forme di conoscenza”. Non mi pare che questo sia corretto, così come non mi pare corretto mettere in contrapposizione esperienza e studio. La gita scolastica, il soggiorno di studio sono sicuramente importanti, occasioni di socializzazione, esperienza fondamentali che mettono i ragazzi a contatto con nuove persone e nuovi territori, ma non esauriscono l’apprendimento, non si sostituiscono allo studio. Visitare i Musei Vaticani non significa conoscere Raffaello o Michelangelo. Allo stesso modo partecipare a un seminario favorisce la curiosità, è un’occasione per avere degli stimoli, aprirsi a orizzonti diversi, ma non sostituisce lo studio. Uno non apprende nuove conoscenze perché ha partecipato a un seminario, ma acquisisce nuove conoscenze perchè coglie quell’occasione per approfondire e studiare. Contrapporre esperienza e studio non è, pertanto, corretto. Trovo sorprendente quando sento dire “aboliamo i compiti a casa”. Il discorso è diverso se si tratta della scuola a tempo pieno, con tempi anche per lo studio individuale a scuola, ma in generale non si può affermare che non servono i compiti a casa. Ugualmente non sono d’accordo quando sento dire “Non usiamo libri”; i libri sono lo strumento dello studio e non possono essere abbandonati.
2° TEMA: CONSOLIDAMENTO E RI-CONSOLIDAMENTO DELLA TRACCIA DI MEMORIA
Affrontiamo ora il secondo tema: consolidamento e riconsolidamento della traccia di memoria.
Quando impariamo qualcosa, si genera una serie di cambiamenti nel cervello, di tipo funzionale, di tipo strutturale, a livello molecolare, a livello cellulare e si crea una traccia mnestica. Questo processo si chiama consolidamento della traccia mnestica, una configurazione, una rete di connessioni che è necessaria affinché quell’informazione sia immagazzinata e poi recuperata. Quando viene recuperata quella configurazione, quella rete di connessioni torna ad essere instabile, diventa vulnerabile, allora è necessario riconsolidare la traccia mnestica e si determina il riconsolidamento della traccia mnestica.
Consolidamento e riconsolidamento sono due processi diversi, quando si riconsolida la traccia questa cambia, viene modificata, diventa diversa e allora la distinzione fra consolidamento e riconsolidamento ci costringe a pensare in modo diverso alla memoria. La memoria non è come siamo abituati ad immaginarla, vale a dire un processo secondo cui apprendiamo qualcosa, la immagazziniamo e poi la recuperiamo in momenti diversi. Non è così, quando impariamo qualcosa, questa viene immagazzinata, viene memorizzata, ma nel momento in cui la recuperiamo, il ricordo la cambia; ciò che noi abbiamo memorizzato diventa un nuovo ricordo e ogni volta che noi ricordiamo quel ricordo si modifica, cambia continuamente.
Tutto questo ci interroga come docenti. Come facciamo a imparare e a insegnare se la memoria cambia continuamente, se il ricordo cambia, mentre noi vogliamo che l’informazione sia stabile, che la competenza sia stabile. E se questa cambia continuamente come possiamo valutare gli apprendimenti?
Un modo per affrontare questo tema è far sì che si torni sempre alle esperienze originali, in un continuo tornare indietro. Se la memoria cambia continuamente la didattica deve in qualche modo ripristinare l’informazione originale, deve far sì che il ricordo, che l’informazione che si aggiorna si confronti continuamente con quella originale.
Vi sono due metodi che permettono questo:
- Il primo è l’uso del test come strumento di apprendimento. Mentre si studia è opportuno rispondere a domande, sottoporsi a test, che vuol dire interrogare il testo su cui si studia, cercare attivamente delle risposte, elaborare attivamente ciò che si studia. C’è un esperimento fondamentale di Henry Rediger che confronta due gruppi che devono imparare un testo scientifico, un gruppo deve leggere e studiare più volte il testo e un gruppo deve leggere e poi sottoporsi a un test, quello che si osserva è che dopo 5 minuti il gruppo che ha letto più volte il testo ricorda leggermente di più ma dopo una settimana l’effetto si ribalta completamente. Chi si è sottoposto a test ricorda molto di più, questo è stato replicato più volte, per esempio confrontando un gruppo che legge, studia tradizionalmente quattro volte e chi invece dopo aver letto la prima volta si sottopone per tre volte al test, quindi torna indietro. Di nuovo lo studiare, leggere più volte ha un effetto, un vantaggio immediato che però si perde completamente tanto che dopo una settimana il ricordo è più stabile se si è sottoposti a test.
- Il secondo è l’ apprendimento distribuito
Supponiamo di studiare 5 ore. Se queste 5 ore sono distribuite nel tempo, un’ora al giorno per esempio, l’apprendimento è maggiore e più duraturo rispetto alle situazioni in cui le 5 ore di studio sono continuative. Ci si può illudere di essere preparati per un test, perché si è studiato affannosamente nell’intero weekend, ma col passare del tempo la pratica concentrata porta all’oblio. Ciò che invece è studiato in modo distribuito rimane. Perché questo? E questo perché lo studio distribuito nel tempo costringe a tornare indietro, ogni episodio deve essere collegato, ogni volta si deve recuperare ciò che si è fatto in precedenza. Al contrario studiare 5 ore di seguito per un intero weekend significa studiare una volta sola, tanto, ma una sola volta, senza che ci sia un processo di ritorno. Nel 2013 è uscita una rassegna che ha analizzato le diverse tecniche di apprendimento, gli autori ne hanno preso in considerazione 10 e nella tabella sopra si vede che le due tecniche che risultano più efficaci sono proprio la tecnica del test e la tecnica della pratica distribuita, vale a dire le due tecniche che costringono a tornare all’esperienza originale di apprendimento, che quindi in qualche modo contrastano il cambiamento continuo della traccia di memoria.
3° TEMA: NEUROPLASTICITÀ E PERIODI CRITICI
Il terzo tema è neuroplasticità e periodi critici
Il nostro cervello cambia in funzione dell’esperienza. Vi sono dei periodi che sono vere e proprie opportunità per lo sviluppo del cervello, parliamo di periodi critici quando al termine di periodi in cui l’apprendimento è stato particolarmente intenso, non è più possibile apprendere oppure è possibile in modo molto più lento e meno efficace, più difficoltoso e non immediato. Vi sono diversi periodi critici a seconda delle funzioni sensomotorie o dei diversi ambiti cognitivi.
Vediamo alcuni esempi relativi al mondo scolastico e alla didattica.
1° Esempio: l’apprendimento dell’ortografia
L’Italiano è una lingua trasparente in quanto alla lettura, ma presenta delle ambiguità rispetto alla scrittura. Sotto vedete coppie di sequenze di lettere che si pronunciano allo stesso modo, ma una sola è corretta dal punto di vista ortografico.
Profiquo | Proficuo |
Insufficiente | Insufficente |
Ingegnere | Ingegniere |
Strisce | Striscie |
Socquadro | Soqquadro |
Come si fa a sapere qual è la forma ortografica corretta? Non ci sono regole, ma solo due possibilità: 1) fare ricorso al computer che segnala l’errore tramite il correttore ortografico; 2) imparare a memoria la forma ortografica corretta. Bisogna cioè memorizzare tutte quelle parole ambigue che hanno più soluzioni come quelle dell’esempio sopra.
Ebbene questa capacità di imparare a memoria è facilitata nel periodo della scuola primaria tra i 6 e i 9 anni.
Se non si imparano queste parole in quel periodo, dopo diventa molto più difficile, e da adulti gli errori diventano molto frequenti e così, come negli annunci sotto, trovate scritto “qulatello”, “aquisto”, “evaquiamo”.
2° esempio: l’apprendimento della lettura
Veniamo al 2° esempio. Finalmente si è abbandonato il metodo globale nell’insegnamento della lettura, però le cose non vanno molto meglio. Per esempio molti insegnanti privilegiano l’insegnamento basato su altre caratteristiche: si lavora solo sullo stampatello maiuscolo e si lavora sul riconoscimento delle lettere ma non sulla formazione della lettera e si cerca di associare la lettera al suono con tecniche anche diverse o la lettera alla forma grafica, per esempio associando la lettera A ad Ape, la B a Balena, S al serpente, così via.
Associando la lettera al suono molti di questi docenti insegnano che lo spelling orale si fa così: “cane” è /k/ /a/ /n/ /e/, ma non è così, questa è la segmentazione fonologica. Lo spelling orale significa nominare le lettere che compongono la parola, ci-a-enne-e, soltanto in questo modo per esempio è possibile fare lo spelling orale della parola “chiave” che non sarebbe possibile nel caso precedente. La lettera non è un segno grafico ma un’unità ortografica, che ha un nome e che è indipendente dalla forma concreta. E’ necessario imparare fin da subito che forme diverse sono la stessa lettera, che una lettera può assumere formati diversi. Leggere non è associare una forma visiva a un suono o a un significato, perché se fosse così noi tratteremo “cane” scritto in minuscolo e “cane” scritto in stampatello maiuscolo o in corsivo come se fossero parole diverse, sono fisicamente diverse, sono stimoli diversi ma sono la stessa parola, e per riconoscere che sono la stessa parola è necessaria la mediazione dell’ortografia. Imparare a leggere significa trasformare l’informazione visiva in ortografia e associare le informazioni ortografiche alla fonologia e a un significato.
Questo bisogna farlo nel periodo tra i 6 e i 9 anni, il periodo della scuola primaria. Se non si fa in questo periodo, dopo diventa molto difficile, e se non si acquisisce la competenza ortografica, le difficoltà di lettura persisteranno nel tempo. Si è visto anche come l’attività cerebrale sia diversa nei soggetti che imparano a leggere e a scrivere da adulti rispetto a quelli che imparano da bambini. C’è una minore risposta nell’adulto che ha imparato tardi ed è comparabile a quella dell’adulto analfabeta.
3° Esempio:
Dunque l’idea di neuroplasticità, di periodo critico è importante per non posticipare gli apprendimenti, ma è importante anche per non anticiparli male e veniamo all’ultimo esempio.
Nel 2008 è uscito un rapporto in Francia sulle abilità di lettura scrittura e calcolo di bambini di circa 10 anni, che frequentano la CM2, che corrisponde alla nostra 5^ primaria. Quello che ha sorpreso in questo rapporto è che a partire dal 1987 vi è stato un calo clamoroso nelle abilità di calcolo, per esempio per un’addizione relativamente semplice l’accuratezza passa dal 94% al 83%, in una moltiplicazione dal 84% al 68%. Un calo nell’accuratezza che è risultato indipendente dalla regione geografica, dalla classe sociale della famiglia, è stato inoltre un calo nella prestazione aritmetica che non si è osservato nelle abilità di lettura e scrittura. Che cosa è successo? Secondo alcuni autori è successo che nel 1986 in Francia è stato introdotto un metodo di insegnamento precoce del calcolo da attuarsi nella scuola materna, un metodo basato su una teoria che descrive processi cognitivi alla base
di calcolo, ma che non dice come si insegna il calcolo, quindi, di nuovo, quando si applica una teoria in modo automatico, si fanno dei danni.
Cosa succede quando si insegna precocemente in questi casi il calcolo ai bambini molto piccoli? Succede che si enfatizza la sequenza dei numeri, si enfatizza l’idea che bisogna ripetere la sequenza verbalmente, magari aiutandosi con le dita si fa coincidere il contare con l’enumerare, ma questo porta a enfatizzare il valore nominale del numero: “la terza mela si chiama 3”, mettendo da parte quello che è la numerosità quello che è la proprietà cardinale del numero. Se il bambino impara in questo modo a contare, ignorando la numerosità e la possibilità di fare i gruppi, farà sempre più fatica a calcolare e dovrà sempre fare riferimento a quella sequenza verbale e motoria che ha appreso.
In questo metodo di insegnamento precoce e scorretto realizzato nella scuola dell’infanzia si è ravvisata una delle cause delle difficoltà dei bambini francesi nel calcolo.
Lo cito come esempio di un insegnamento che anticipa il periodo critico, ma lo fa male. Allora meglio non fare nulla piuttosto che fare le cose in modo sbagliato.
CONCLUSIONI
Arrivo alla conclusione.
Le neuroscienze danno dei contributi importanti e fondamentali che possono aiutare la riflessione e le scelte in ambito didattico, ma non dobbiamo applicare in modo automatico e passivo quello che leggiamo sui libri o che impariamo nelle occasioni di divulgazione.
E’ importante riconoscere l’importanza delle neuroscienze, ma non dobbiamo dimenticare la tradizione e le esperienze, sia quelle individuali sia quelle collettive.
Prima ho citato l’apprendimento della lettura, della scrittura e del calcolo e ho fatto riferimento a metodi che non sono recenti, ma che funzionavano. Non c’è nessun motivo per cambiare tutto, l’innovazione non è sempre progresso, bisogna stare molto attenti. Le immagini del cervello sono affascinanti ma a volte ingannano, alcune ricerche come queste hanno mostrato che una frase priva di senso viene considerata vera, le viene attribuito un valore scientifico se accompagnata da immagini del cervello, come se le immagini del cervello in qualche modo certificassero qualunque affermazione, come se il vedere dei colori nel cervello rendesse una frase sempre vera.
Come insegnanti dobbiamo sempre mantenere autonomia, distacco critico e consapevolezza della professione e della responsabilità, perché è facile essere ingannati o farsi ingannare dai neuromiti di cui si parlava all’inizio.
Posso concludere con uno slogan o con un messaggio: