E’ rilevante quanto tempo passano on line gli studenti?
Cosa dice il Focus n.59
Quindicenni OCSE: in media 2 ore al giorno online
Un adolescente di un Paese economicamente avanzato è probabile che passi buona parte del suo tempo libero utilizzando dispositivi tecnologici, guardando video on-line, chattando, inviando messaggi o facendo tutte queste cose assieme. Gli stereotipi riguardo alla cosiddetta generazione digitale (net generation) hanno un certo grado di verità come dimostrano i dati dei questionari raccolti in PISA 2012.
Nei Paesi OCSE più di un quindicenne su due dichiara infatti di stare on line per più di due ore al giorno nei fine settimana.
Le più comuni attività online
Quasi ogni giorno circa il 70% dei quindicenni dei paesi OCSE va su internet per divertimento, per comunicare sui social network o per guardare dei video in streaming. Queste sono le attività più comuni praticate dai giovani insieme a chattare on line (54%) e scaricare musica, film o giochi da internet (47%).
Per molti di questi giovani il tempo passato su internet non sembra proprio avere dei limiti (a parte le 24 ore della giornata). In media circa il 7% degli studenti OCSE dichiara di passare nel loro tempo libero più di 6 ore al giorno on line. Questo dato sale al 13% degli studenti in Russia e in Svezia.
Rischi di un uso eccessivo della rete
In Paesi dove l’accesso a internet non dipende dalle condizioni socio-economiche gli studenti delle famiglie socio economicamente svantaggiate passano in media on line lo stesso tempo degli studenti di famiglie più benestanti. Ad ogni livello socioeconomico quindi i quindicenni di oggi crescono in un ambiente sempre più altamente interconnesso. L’accesso a una molteplicità di risorse educative, l’impegno in attività su internet e le diverse esperienze in ambiente digitale fanno emergere preoccupazioni sul pericolo di un accesso illimitato alla rete. Naturalmente i bambini e i ragazzi vanno protetti dalle minacce online o da contenuti dannosi come cyberbullismo, pornografia, frodi on line, pratiche abusive di marketing e furto di identità. Questo tipo di minacce esiste anche nel mondo reale ma gli accorgimenti e le difese che sono messi in atto nella realtà non sono altrettanto efficaci nel mondo virtuale.
Gli effetti negativi di prolungate connessioni
La ricerca internazionale ha anche evidenziato come la sola esposizione prolungata agli schermi sia dannosa in quanto perturba il sonno, l’attività fisica e il benessere sociale. Questi dati sono confermati decisamente dall’indagine PISA. Ad esempio gli studenti che usano in maggior grado internet, sei o più ore al giorno, hanno un più basso livello di “benessere scolastico”. Questi studenti hanno il doppio di probabilità rispetto agli studenti che usano moderatamente internet, ovvero massimo due ore al giorno, di sentirsi isolati a scuola (14% contro il 7%). Gli studenti ben integrati a scuola hanno poche probabilità di essere tra quelli che passano sei o più ore al giorno su internet. Inoltre gli studenti che usano in maggior grado internet presentano minor impegno scolastico. Questo impegno viene misurato in termini di ritardi nell’ingresso a scuola nelle due settimane precedenti il test PISA: il 45% dei maggiori utilizzatori della rete fa ritardo all’ingresso a scuola, contro il 32% degli studenti che usano al massimo fino a un’ora al giorno internet. Infine gli assidui utilizzatori di internet registrano punteggi inferiori in media nel test PISA di matematica.
Certamente non c’è una relazione di causa effetto, ma i dati mostrano che c’è una qualche relazione tra l’uso di dispositivi elettronici digitali nel tempo libero e il benessere scolastico. Il fatto che gli esiti degli apprendimenti siano correlati negativamente all’uso intensivo di internet non è solo una questione che riguarda il tempo libero degli studenti ma è un argomento che deve interrogare i sistemi scolastici nel loro complesso. Genitori, insegnanti e professionisti sociosanitari devono cooperare per monitorare e pianificare l’uso dei nuovi media nei bambini.
Chi sono gli studenti con gli esiti peggiori?
Cosa dice il Focus n.60
I rischi associate a bassi risultati scolastici hanno conseguenze prolungate nel tempo……
Troppi studenti nel mondo sono intrappolati in un circolo vizioso di scarsi risultati scolastici che conducono a demotivazione allo studio che a sua volta porta a bassi risultati e progressivo disimpegno scolastico. I quindicenni con scarsi esiti scolastici sono maggiormente a rischio di abbandono scolastico. Da adulti i bassi livelli di competenza in matematica e lettura li condurranno probabilmente verso lavori meno rimunerativi e poco gratificanti, a una peggior condizione di salute e a bassi tassi di partecipazione politica e sociale. Inoltre quando una larga parte della popolazione non raggiunge le abilità di base anche la crescita economica e sociale sono seriamente compromesse.
In PISA 2012 il tasso di studenti che nei Paesi OCSE non raggiungevano il livello minimo di competenze in matematica era del 23% e in lettura e scienze del 18%. Il 12% degli studenti nel 2012 otteneva il livello minimo di competenze in tutti e tre gli ambiti. Nei Paesi non OCSE queste percentuali sono maggiori. Passando ai numeri reali più di 13 milioni di quindicenni nei 64 Paesi che nel 2012 parteciparono a questa indagine hanno avuto basse performance in almeno un ambito.
I fattori che più incidono sulle basse performance oltre a quelli socioeconomici sono quelli legati alle caratteristiche demografiche (anche della famiglia) ed educative degli stessi studenti. In media un ragazzo socio economicamente avvantaggiato che ha una famiglia con entrambi i genitori, non immigrato, la cui lingua madre coincide con quella parlata a scuola, che vive in città e ha frequentato più di un anno di scuola d’infanzia, non è ripetente e segue un curricolo scolastico generale (liceale) ha solo il 5% di probabilità di ottenere basse performance in matematica. Al contrario una ragazza socio economicamente svantaggiata, in una famiglia monoparentale, immigrata, che parla una lingua materna diversa da quella parlata a scuola, che vive in una area rurale, che non ha frequentato la scuola d’infanzia, che è ripetente e segue un curricolo professionale ha l’83% di probabilità di ottenere basse performance.
Tra gli studenti con basse performance, il genere è una variabile particolare rispetto alle altre in quanto il suo impatto è dipendente dal tipo di disciplina. I maschi sono maggiormente a rischio di basse performance in lettura e scienze, mentre le femmine sono maggiormente a rischio di basse performance in matematica. Questi fattori di rischio interessano tutti gli studenti ma sono più dannosi per quelli in condizioni socioeconomiche svantaggiate. In media tra i Paesi OCSE infatti tutti i fattori demografici elencati, così come la mancanza di un’educazione pre-primaria, influenzano in negativo maggiormente gli studenti socio economicamente svantaggiati rispetto a quelli socio economicamente avvantaggiati. I due soli fattori che hanno un impatto realmente negativo tra gli studenti socio economicamente avvantaggiati sono le mancate promozioni e il seguire un curricolo scolastico professionale. I fattori di rischio per gli studenti socio economicamente svantaggiati sono quindi più numerosi e maggiormente impattanti.
….. e possono essere aumentati- o ridotti- a scuola.
I fattori inerenti alla scuola frequentata hanno però un influsso sugli apprendimenti. Gli studenti con difficoltà traggono beneficio dagli insegnanti che mostrano interesse nei loro apprendimenti, li aiutano, lavorano con loro per fargli raggiungere la comprensione dei contenuti e li incoraggiano a esprimersi. Al tempo stesso insegnanti che hanno alte aspettative verso gli studenti, lavorano con entusiasmo, sono orgogliosi della loro scuola e danno valore al rendimento scolastico è probabile che rendano le attività e i compiti richiesti più avvincenti per gli studenti. Anche l’organizzazione scolastica e le risorse impegnate dalle scuole sono in relazione con le basse performance anche tenuto conto dei fattori socioeconomici. In media nei Paesi OCSE l’alta qualità dei sussidi educativi e il numero di attività e la qualità presenti nell’ offerta extracurricolare sono associate a un numero più esiguo di studenti con basse performance. Inoltre le scuole che attivano maggiormente i raggruppamenti di studenti secondo i livelli di abilità hanno maggiore probabilità di registrare un più alto numero di studenti con basse performance, forse perché in questo modo questi studenti beneficiano di meno delle abilità dei loro compagni più capaci.
Le implicazioni politiche
Le implicazioni politiche di questi risultati sono chiare. I decisori politici devono considerare il problema degli studenti con bassi esiti una priorità e fornire adeguate risorse per affrontarlo. Il problema va però fronteggiato da più parti. I sistemi scolastici dei diversi Paesi devono prevedere per tutti la possibilità di frequentare la scuola d’infanzia, approntare dall’inizio del percorso scolastico strumenti di individuazione degli studenti e scuole con bassi rendimenti e conseguenti azioni politiche mirate di recupero. Anche la formazione dei docenti per affrontare studenti con diverse o carenti abilità deve rientrare tra le priorità delle politiche educative e scolastiche. Infine il supporto delle famiglie e i comportamenti e le attitudini positive degli studenti (frequenza scolastica costante, svolgimento puntuale dei compiti a casa, apprendere con motivazione e perseveranza) sono senz’altro buoni strumenti per recuperare i bassi esiti scolastici. Tra il 2003 e il 2012 gli studenti di diversi Paesi hanno migliorato i loro esiti in matematica. Non è chiaro se questi Paesi hanno adottato delle azioni comuni per arrivare a questo risultato e inoltre esiste una certa variabilità tra le loro economie e negli esiti del 2003, ma qui risiede una lezione: tutti i Paesi possono migliorare gli esiti dei loro studenti se si modificano opportunamente le politiche scolastiche e se c’è la volontà di farlo.
COMMENTO
Secondo una recente stima OCSE se, in Italia, entro il 2030, tutti i quindicenni raggiungessero almeno il livello di base nelle performance PISA, nel 2095 il PIL incrementerebbe del 18%. Questa proiezione fonda ulteriormente la fiducia nel potere dei sistemi educativi come leva per migliorare la crescita economica dei paesi. PISA fornisce ancora alcune variabili che sono in relazione con le basse prestazioni degli studenti per indicare ai governi delle piste percorribili di miglioramento. Ogni governo, in base alle conoscenze dei propri sistemi educativi, dovrà elaborare però la propria ricetta ad hoc. QQui diventano fondamentali le conoscenze su come funzionano i sistemi educativi dei singoli Paesi.
In Italia l’Invalsi da alcuni anni restituisce dati informativi di volta in volta più solidi sullo stato del sistema scolastico, ma ancora poche sono le risorse, non parliamo solo di quelle economiche, messe in campo dai governi per riutilizzare queste informazioni in attività volte al miglioramento degli esiti del sistema educativo nazionale. Ad esempio un problema degno di nota è il contrasto tra le conclusioni dell’indagine PISA relativamente all’importanza della scuola d’infanzia come fattore di sviluppo degli apprendimenti e le conclusioni, in Italia, delle indagini Invalsi che sostengono come in seconda primaria i livelli di apprendimento sono i più omogenei, nonostante le differenze sul territorio nazionale di presenza e frequenza degli asili nido e delle scuole d’infanzia.
Le azioni mirate che tengono conto delle specificità regionali e territoriali richiedono allora una conoscenza profonda dei reali meccanismi su cui si fonda la vita scolastica e un coinvolgimento maggiore e maggiormente consapevole degli attori (dirigenti e docenti, ma anche genitori e studenti) che agiscono quotidianamente sul campo. Una scuola quasi totalmente imbrigliata in pratiche burocratizzate difficilmente può avere anche la forza di riflettere su se stessa, ma potrà solo far finta di farlo mettendo in atto pratiche dirette dall’esterno, vissute in modo formale e non riconosciute come utili per un vero miglioramento degli esiti e direi anche organizzativo delle scuole. Pratiche burocratizzate possono esserlo anche quelle rivolte al cambiamento e all’innovazione con il rischio che si cerchi di andare per le spicce copiando qua e là dai sistemi scolastici con risultati migliori degli altri senza comprendere le vere ragioni del loro successo. Ad esempio il focus mette in relazione la percentuale di studenti con esiti inferiori in matematica e l’inclusività del sistema scolastico. La correlazione evidenzia come i Paesi di maggiore interesse per i loro esiti PISA e cioè quelli asiatici e quelli nord europei si posizionano in maniera diversa facendo però risultare due gruppi distinti. I Paesi del nord Europa brillano per inclusività ma senza ridurre al minimo il numero di studenti con bassi risultati come invece riescono a fare i Paesi asiatici senza eccellere però in inclusività. Un’analisi accurata di come funzionano le scuole, e quindi della cultura che le informa, oltre che dei sistemi scolastici, comincia sempre più ad imporsi se vogliamo modificare la scuola italiana, con la consapevolezza di farlo avendo il timone in mano chiarificando a se stessi prima di tutto quali sono gli obiettivi prioritari da raggiungere.
In Italia le azioni del piano nazionale “La scuola al centro” fondano, oltre che, come dichiarato, sulla prevenzione della dispersione nelle periferie, anche sull’inclusività e sul recupero degli esiti di studenti più deboli la loro ragione d’essere. Azioni di questo tipo vanno coordinate con la creazione di ambienti di apprendimento ricchi e stimolanti, un tempestivo rimedio alle carenze nelle diverse materie, programmi speciali per studenti con specifiche caratteristiche che influenzano le basse performance e un fattivo coinvolgimento dei genitori e delle comunità con cui le scuole interagiscono. E tutto questo come si integra con il curricolo scolastico mattutino?
Sapranno i nostri decisori politici e il personale delle scuole tenere conto dei risultati PISA e Invalsi per pianificare, organizzare, gestire e monitorare i cambiamenti auspicati con questo tipo di interventi?
La memorizzazione è una buona strategia per imparare la matematica?
Cosa dice il Focus n.61
Il teorema di Pitagora o la formula dell’area del cerchio ce le ricordiamo perché la abbiamo studiate a memoria e applicate a problemi simili tra loro o perché le abbiamo comprese e più volte applicate a problemi matematici in contesti diversi? In ogni caso il metodo di apprendimento ha la sua importanza. Gli studenti che evitano di comprendere i concetti matematici possono avere successo in determinati contesti di apprendimento, ma una mancanza di pensiero profondo, creativo e critico può penalizzarli successivamente quando affronteranno problemi non di routine con molteplici soluzioni non facilmente prevedibili. Non desta sorpresa quindi l’interrogarsi di molti sistemi educativi sulla validità dell’apprendimento a memoria e della ripetuta esecuzione di esercizi simili tra loro. Ad esempio in Inghilterra è in corso un dibattito sull’apprendimento delle tabelline delle moltiplicazioni. Alcuni ritengono un errore che gli studenti, come prescritto dal curriculum nazionale, debbano dall’età di 9 anni apprenderle a memoria, mentre altri sostengono l’importanza di questi apprendimenti di base.
Quali studenti usano di più l’apprendimento mnemonico?
PISA vuole scoprire come gli studenti imparano la matematica. Lo ha fatto attraverso un questionario in cui comparivano alcune domande relative all’apprendimento a memoria: memorizzare definizioni, richiamare esercizi o esempi già svolti e svolgere numerosi esercizi di una determinata tipologia. E’ stato così costruito un indice di memorizzazione che varia da 0 che rappresenta la sistematica scelta di strategie che non includono la memorizzazione a 4 che rappresenta la scelta esclusiva di strategie basate sulla memorizzazione. Il risultato è che i quindicenni usano comunemente strategie di memorizzazione per l’apprendimento della matematica.
Gli studenti dei Paesi asiatici riportano in realtà di studiare poco a memoria per i test, come ad esempio Vietnam (5%), Giappone (12%) e Corea (17%).
Molto maggiori sono le percentuali di studenti di Paesi anglofoni che dichiarano di prepararsi con strategie di memorizzazione per i test di matematica.
Basse percentuali di memorizzazione vengono registrate anche dagli studenti di Russia, Macao Cina, Serbia e Repubblica Slovacca.
Le ragioni dell’utilizzo di strategie di memorizzazione risiedono ad esempio nel fatto che richiedono minore sforzo cognitivo specialmente se gli studenti non sono particolarmente predisposti per la matematica. In altri casi gli studenti non vedono ragioni di usare strategie diverse dalla memorizzazione se non viene richiesto l’utilizzo di tali strategie. Infine alcuni studenti sono semplicemente convinti di non essere in grado di capire veramente la matematica.
I risultati di PISA evidenziano che gli studenti con attitudini positive verso la matematica e verso il problem solving, con un’alta motivazione strumentale all’apprendimento della disciplina, che sono interessati alla matematica, che hanno un alto concetto di autoefficacia e di sé e una bassa ansietà per la matematica, è meno probabile che usino strategie di memorizzazione. In tutti i sistemi educativi i ragazzi è meno probabile che usino strategie di memorizzazione rispetto alle ragazze.
L’apprendimento mnemonico è efficace per domande semplici…
Per domande di matematica molto semplici (87% delle risposte corrette) presentate nel test PISA 2012 le strategie di memorizzazione risultano altrettanto efficaci di quelle basate sulla comprensione e talvolta in alcuni paesi sono risultate anche più efficaci (Albania, Lituania, Slovenia).
……ma problemi complessi richiedono molto di più della memoria
Diversamente per domande difficili (3% delle risposte corrette) che richiedono vari passaggi, un ragionamento geometrico sui concetti, e una modellizzazione della realtà le strategie di memorizzazione non risultano assolutamente efficaci.
L’analisi dei dati PISA dimostra che per ogni unità di incremento dell’indice di memorizzazione la possibilità di rispondere correttamente a quest’ultimo tipo di domande decresce del 31% per gli studenti dei paesi OCSE. In particolare gli studenti che riportano di usare principalmente strategie di memorizzazione nello studio hanno una probabilità quattro volte inferiore di risolvere questi problemi rispetto agli studenti che usano principalmente strategie di tipo concettuale (che coinvolgono la metacognizione).
COMMENTO
Come è già stato detto e scritto, i risultati di PISA ancora non hanno una forma tale da essere un valido aiuto per la didattica. Numerosi focus sull’apprendimento della matematica dei quindicenni non hanno in realtà dato elementi che gli esperti del settore e gli insegnanti più avveduti e competenti non conoscessero già molto bene e direi anche meglio. La speranza è allora nell’impatto maggiore che PISA può avere, data la sua maggiore ampiezza e pubblicizzazione, rispetto alle ricerche di settore, per forza di cosa più circoscritte, anche se concettualmente molto più approfondite. Le conclusioni di PISA possono più facilmente raggiungere tutti gli insegnanti e non solo i cultori della didattica e della metodologia dell’insegnamento. Resta il problema successivo del loro utilizzo.
Ma dalla domanda del focus qualcosa di sicuro lo si può trarre.
Fondamentalmente la matematica insegnata richiede tre cose:
- la precisione,
- la distinzione in argomenti tra loro connessi,
- il problem solving.
La precisione riguarda la conoscenza delle definizioni e questa implica l’uso della memoria. Ma affinché la memorizzazione delle definizioni non sia uno sterile esercizio bisogna far si che gli studenti si chiedano: che cosa è incluso nella definizione? Che cosa ne è escluso? Che cosa accadrebbe se la definizione fosse cambiata e perché una definizione diversa non è usata? Questo modo di approcciare lo studio mnemonico conduce a ragionare e porsi problemi proprio sulla parte della matematica che più richiede la memorizzazione ma solo come punto di partenza per il successivo porsi problemi (fase di problemi solving). Si può anche decidere di non partire dalle definizioni (soprattutto alla scuola primaria) ma una definizione per gli studenti che sia condivisa e validata deve alla fine essere raggiunta perché poi questo è lo strumento matematico da applicare con sicurezza per il problem solving e per la formazione dei concetti. Resta il fatto che la matematica insegnata nei Paesi con risultati nei testi internazionali più positivi come l’Asia Orientale e la Russia fa largo uso di precise definizioni fin dalla scuola primaria. Bisognerà anche uscire dal falso dilemma che per rendere la matematica accessibile a tutti debba essere privata di precisione e chiarezza. Si può fare della matematica divertente senza eliminarne una delle sue caratteristiche imprescindibili.
Forse è un problema di formazione dei docenti e di ricerca specialistica sull’insegnamento ancora poco sviluppata in questo specifico settore, non solo in Italia. Le discipline insegnate a scuola sono ben diverse da quelle concepite dagli esperti, richiedono di essere riconcettualizzate per l’insegnamento in base al tipo di studenti a cui vanno insegnate. La professionalità docente passa anche da qui e dobbiamo dire che le università, non tutte, e il MIUR che hanno la responsabilità di questa formazione spesso non hanno formatori a sufficienza con le conoscenze adeguate per questo tipo di trasformazione del sapere. Bisogna cominciare a pensare che talvolta per insegnare bene bisognerebbe disimparare una parte di quanto appreso nelle aule scolastiche e universitarie.
E bisognerà anche imparare a uscire dal comodo alibi che la matematica è per chi ne ha il pallino. In questo senso PISA è stato fondamentale: possibile che tutti coloro che hanno il pallino della matematica si concentrino a Shangai, in Giappone e in Olanda, solo per fare qualche esempio, da anni? E in Italia? Tutti al Nord?
Un’ultima considerazione su un fattore di genere: i ragazzi è meno probabile che usino strategie di memorizzazione delle ragazze. Possiamo ipotizzare a riguardo un combinato della maggior insicurezza delle ragazze con il minor impegno nello studio dei ragazzi. Se si puntasse a una matematica più vicina al problem solving e dove la memorizzazione è dotata di senso forse le cose cambierebbero?
COMMENTO
Le scuole insegnano ai quindicenni discipline fondate su linguaggi elaborati che hanno come supporto principale il libro di testo e come modalità di insegnamento preminente la lezione di tipo trasmissivo. Anche quando la scuola è all’avanguardia nell’uso delle TIC, la forte struttura disciplinare del sapere codificato nelle materie scolastiche impone che l’acquisizione delle conoscenze da parte degli studenti richieda dei contenuti di base sicuri e dei percorsi di apprendimento ben definiti, secondo le logiche interne alle discipline che, con il progredire degli studi, non hanno sempre facili agganci con l’esperienza quotidiana degli studenti. Questo è vero oggi per la net generation come era vero per i giovani di 50 anni fa quando ancora i mezzi di comunicazione principali erano la radio, la televisione e il telefono fisso, mezzi che avevano una pervasività nella vita di ogni giorno non confrontabile rispetto a quella che oggi hanno da soli i telefoni cellulari.
La scuola è chiamata in causa nel cooperare con genitori e professionisti sociosanitari per aiutare i giovani a regolare l’uso dei nuovi media, ma la chiamata in causa rischia di diventare un’ulteriore delega alla scuola nell’organizzare e coordinare anche questi aspetti educativi che competono a un più ampio insieme di agenzie educative: famiglia, associazioni, comunità di riferimento, che invece vengono a loro volta troppo poco chiamate in causa come parti attive per affrontare il problema. Il rischio è che si faccia ancora eccessivo affidamento sulle virtù quasi taumaturgiche dell’educazione scolastica che in qualche modo, ma quale sia non è chiaro a nessuno, dovrebbe riuscire a dissuadere i giovani dall’uso eccessivo, non controllato e poco consapevole dei nuovi media, in particolare social network e videogiochi e al tempo stesso riutilizzarli per potenziare l’apprendimento delle competenze e delle conoscenze disciplinari. In realtà ciò accade anche perché le indicazioni che provengono dai decisori politico istituzionali a riguardo sono spesso contrastanti tra loro e poco organizzate e non ultimo per la scarsa incisività delle altre agenzie formative. Pochi mesi fa il focus PISA 57 sulla capacità delle scuole nel facilitare l’integrazione degli studenti immigrati sottolineava l’importanza delle politiche educative a questo scopo, ma non dovremmo dimenticare che anche la sola didattica, come tecnica per potenziare gli apprendimenti, è una questione spesso culturale e cioè una questione che non riguarda solo la scuola ma che riguarda anche le politiche sociali.
Tutto sommato il quadro che esce dal focus può essere intuibile a priori: un forte uso di internet per scopi ludici si accompagna a ESCS bassi e a bassi apprendimenti. Quello che è importante è il fatto che, in questo caso, i dati confermano l’intuizione, cosa che non sempre si verifica.
Non dimentichiamo infine, per lo meno per quanto riguarda la situazione in Italia, che nelle scuole secondarie l’insegnamento si fonda principalmente su obiettivi di tipo cognitivo, e che quindi esiste anche un problema di formazione dei docenti per quanto riguarda la consapevolezza delle potenzialità e delle problematicità dei nuovi mezzi di comunicazione. Spesso infatti queste potenzialità e problematicità, anche se individuate, restano confinate all’ambito di carattere cognitivo, mentre gran parte delle difficoltà che emergono dall’uso eccessivo dei nuovi mezzi di comunicazione da parte dei ragazzi quindicenni riguardano l’ambito affettivo relazionale su cui i docenti delle scuole secondarie non sempre hanno dimestichezza come educatori e formatori.